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fu il tocco di Stefania sul braccio. Gli si era avvicinata ora che la danza era giunta al termine.

      “Oh, Lucio, hai versato il vino,” gli disse con un sorrise che Tano avrebbe tanto desiderato poter imitare. “Non va per niente bene. Dì a uno dei miei servitori di dartene ancora.”

      “Me lo prendo da solo,” rispose Lucio con ovvia irritazione. “Mi hanno dato questo e guarda cos’è successo.”

      Se ne andò a grandi passi e solo la mano di Stefania trattenne Tano dal seguirlo.

      “Lascia perdere,” gli disse. “Ti ho detto che ci sono metodi migliori, e ci sono. Fidati di me.”

      “Non può passarla liscia con tutto quello che ha fatto,” insistette Tano.

      “No, ma vedila così,” gli disse. “Con chi preferiresti trascorrere la serata? Con Lucio o con me?”

      Queste parole portarono il sorriso sulle labbra di Tano. “Con te. Decisamente con te.”

      Stefania lo baciò. “Risposta giusta.”

      Tano sentì la sua mano scivolare nella propria e si sentì tirare verso le porte. Gli altri nobili li lasciarono passare con occasionali risate alludendo a cosa sarebbe successo poi. Tano la seguì mentre Stefania faceva strada verso la loro stanza, aprendo la porta e dirigendosi verso le camere. Lì si voltò verso di lui e gli gettò le braccia al collo baciandolo con passione.

      “Sei pentito?” gli chiese ritraendosi un momento. “O sei felice di avermi sposato?”

      “Sono felicissimo,” la rassicurò Tano. “E tu?”

      “È tutto come volevo,” gli rispose. “E sai cosa voglio adesso?”

      “Cosa?”

      Tano la vide allungarsi e il suo abito le cadde come un’onda lieve.

      “Te.”

      ***

      Tano si svegliò con i primi raggi del sole che filtravano attraverso le finestre. Accanto a lui poteva sentire la calda pressione della presenza di Stefania, un braccio attorno a lui mentre dormiva rannicchiata. Tano sorrise sentendo l’amore che lo colmava. Ora era più felice di quanto non fosse stato da molto tempo.

      Se non avesse sentito il rumore dei finimenti e il nitrito dei cavalli, si sarebbe stretto a Stefania e si sarebbe riaddormentato, o l’avrebbe svegliata con un bacio. Ma si alzò in piedi e andò alla finestra.

      Fece giusto in tempo per vedere Lucio che partiva dal castello alla testa di un gruppo di soldati a cavallo, i pennacchi che sventolavano al vento come se fosse l’impresa di alcuni cavalieri erranti piuttosto che un macellaio che si preparava ad attaccare dei villaggi indifesi. Tano lo guardò, poi riportò lo sguardo su Stefania che stava ancora dormendo.

      In silenzio iniziò a vestirsi.

      Non poteva stare da parte. Non poteva farlo neanche per Stefania. Lei aveva parlato di modi migliori per occuparsi di Lucio, ma di cosa si trattava? Servirgli educatamente del vino? No, Lucio doveva essere fermato, subito, e c’era solo un modo per farlo.

      Silenziosamente e facendo attenzione a non svegliare Stefania, Tano scivolò fuori dalla stanza. Corse subito alle scuderie, gridando a un servitore di portargli l’armatura.

      Era arrivata l’ora della giustizia.

      CAPITOLO DUE

      Berin poté sentire l’eccitazione, la nervosa energia palpabile nell’aria nel momento in cui mise piede nella galleria. Si fece strada sottoterra, seguendo Anka e Sartes al suo fianco e passando vicino a guardie che li salutavano con rispetto, ribelli che erano accorsi da ogni parte. Passò attraverso il Cancello del Guardiano e sentì la svolta che la ribellione aveva preso.

      Ora sembrava che avessero una possibilità.

      “Da questa parte,” disse Anka facendo cenno a un sorvegliante. “Gli altri ci aspettano.”

      Percorsero corridoi di pietra nuda che sembrava esistessero lì da sempre. Le Rovine di Delo, nelle viscere della terra. Berin accarezzò la pietra liscia con la mano, ammirando le rovine come solo un fabbro poteva e meravigliandosi di quanto fossero sopravvissute e cercando di immaginare chi le avesse costruite. Magari risalivano addirittura ai tempi degli Antichi, più lontano nel tempo di quanto qualcuno potesse ricordare.

      E questo lo fece pensare con una fitta di dolore alla figlia che aveva perso.

      Ceres.

      Berin fu strappato da quel pensiero da un suono di martelli che battevano su metallo, dall’improvviso calore delle forge di fuoco quando passarono oltre un’apertura. Vide una decina di uomini che lavoravano sodo cercando di produrre pettorali e spade corte. Gli vennero in mente i tempi della sua vecchia fucina e ricordò i giorni in cui la sua famiglia non era ancora stata divisa.

      Sembrava che anche Sartes stesse guardando.

      “Tutto bene?” chiese Berin.

      Annuì.

      “Manca anche a me,” rispose Berin mettendogli una mano sulla spalla, sapendo che stava pensando a Ceres che un tempo stava sempre vicino alla forgia.

      “Manca a tutti,” si intromise Anka.

      Per un momento tutti e tre rimasero fermi lì e Berin capì che tutti stavano realizzando quanto Ceres avesse significato per loro.

      Sentì Anka sospirare.

      “Tutto quello che possiamo fare è continuare a combattere,” aggiunse, “e continuare a forgiare armi. Abbiamo bisogno di te, Berin.”

      Lui cercò di concentrarsi.

      “Stanno facendo tutto quello che ho insegnato loro?” chiese. “Stanno scaldando il metallo a sufficienza prima di temprarlo? Altrimenti non si indurirà.”

      Anka sorrise.

      “Controlla tu stesso dopo l’incontro.”

      Berin annuì. Almeno poteva dimostrarsi un po’ utile anche lui.

      ***

      Sartes camminava al fianco di suo padre seguendo Anka mentre continuavano oltre la forgia e si addentravano di più nelle gallerie. C’erano più persone di quante potesse credere là dentro. Uomini e donne stavano mettendo insieme le scorte, allenandosi con le armi, camminando nelle sale. Sartes riconobbe numerosi di loro come precedenti matricole, liberate ora dalla morsa dell’esercito.

      Arrivarono infine a un antro cavernoso, decorato da piedistalli di pietra che probabilmente in passato sorreggevano delle statue. Alla luce di candele baluginanti Sartes poté vedere i capi della ribellione che li aspettavano. Hannah, che aveva discusso contro l’attacco, ora sembrava felice come se l’avesse proposto lei. Oreth, uno dei principali sostenitori di Anka, teneva la sua slanciata figura appoggiata alla parete, sorridendo fra sé e sé. Sartes scorse la grossa stazza del precedente scaricatore di porto Edrin al limitare della luce della candela, mentre i gioielli di Yeralt brillavano e il figlio del mercante sembrava quasi fuori posto tra quella gente mentre ridevano e scherzavano insieme.

      Quando loro tre si avvicinarono, tutti fecero silenzio e Sartes poté vedere le differenze. Prima avevano ascoltato Anka quasi con riluttanza. Ora, dopo l’imboscata, c’era vero e proprio rispetto mentre lei avanzava. Aveva addirittura più l’aspetto del capo agli occhi di Sartes, camminava più eretta e sembrava più sicura.

      “Anka, Anka, Anka!” iniziò Oreth, e subito gli altri intonarono il canto con lui, come i ribelli avevano fatto dopo la battaglia.

      Sartes si unì alle voci, sentendo il nome del nuovo capo riecheggiare nello spazio. Smise soltanto quando Anka fece cenno di fare silenzio.

      “Abbiamo fatto un buon lavoro,” disse Anka con un sorriso. Era uno dei primi che Sartes le vedeva fare dalla battaglia. Era stata troppo impegnata a tentare di organizzare il trasporto

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