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si voltò di scatto: con la coda dell’occhio vide cinque uomini con mantelli e cappucci rosso brillante, che percorrevano velocemente la strada diretto verso di loro. Notò che avevano pelle bianca, mani e volti pallidi, la corporatura più minuta rispetto agli enormi bruti della razza dell’Impero. Capì subito chi erano: Finiani. Una delle migliori doti di Godfrey era quella di ricordare i racconti a memoria, anche se ubriaco. Ricordava di aver ascoltato, nel corso delle passate lune, il popolo di Sandara raccontare storie di Volusia mentre sedevano attorno al fuoco. Aveva sentito la loro descrizione della città, la sua storia, di tutte le razze che erano tenute schiave e dell’unica razza libera, i Finiani. L’unica eccezione alla regola. Gli era stato concesso di vivere liberamente, generazione dopo generazione, perché troppo ricchi per essere uccisi, troppo legati, troppo abili nel rendersi indispensabili e di contrattare nel potere degli affari. Erano facilmente riconoscibili, gli era stato detto, per la pelle pallidissima, i mantelli rosso brillante e i capelli rosso fuoco.

      A Godfrey venne un’idea. Ora o mai più.

      “MUOVETEVI!” disse ai suoi amici.

      Si voltò e scattò in azione, correndo via dal retro del gruppo sotto gli sguardi sorpresi degli schiavi incatenati. Fu sollevato di vedere che gli altri lo seguirono appresso.

      Godfrey correva sbuffando, appesantito dalle grosse sacche di oro che aveva alla vita, come anche gli altri, facendole tintinnare mentre si muoveva. Davanti a sé scorse i cinque Finiani che svoltavano in uno stretto vicolo. Corse dritto verso di loro e pregò di poter svoltare nella stradina senza essere scorto dagli uomini dell’Impero.

      Godfrey, con il cuore che gli martellava nelle orecchie, svoltò a un angolo e vide i Finiani di fronte a sé. Senza neanche pensarci balzò in aria e atterò sul gruppo alle loro spalle.

      Riuscì a bloccarne due a terra, con le costole che gli dolevano per il colpo contro terra mentre rotolava con loro. Sollevò lo sguardo e vide Merek che seguiva il suo esempio e ne bloccava un altro. Akorth fece un salto e ne bloccò al suolo un altro e Fulton balzò addosso all’ultimo, il più piccoletto del gruppo. Ma Godfrey fu seccato di vedere che Fulton mancava il colpo, cadendo ansimante a terra.

      Godfrey ne eliminò uno tenendo l’altro fermo a terra, ma si spaventò vedendo che il piccoletto correva, libero, e stava per svoltare all’angolo. Vide poi Ario con la coda dell’occhio che si faceva tranquillamente avanti, raccoglieva una pietra, la esaminava e la lanciava.

      Con un tiro perfetto colpì il Finiano alla tempia mentre stava svoltando all’angolo, mandandolo al tappeto. Ario gli corse accanto e lo spogliò della tunica iniziando a indossarla, capendo le intenzioni di Godfrey.

      Godfrey, che ancora lottava con l’altro Finiano, alla fine riuscì a dargli una gomitata in faccia e ad annientarlo. Alla fine anche Akorth afferrò il suo Finiano per la camicia e gli sbatté la testa contro il pavimento di pietra, eliminando anche lui. Merek strinse il collo del suo abbastanza a lungo da fargli perdere conoscenza. Poi Godfrey vide Merek rotolare sull’ultimo Finiano puntandogli il pugnale alla gola.

      Godfrey stava per gridargli di smettere, ma una voce squarciò l’aria anticipandolo.

      “No!” disse la voce seccamente.

      Godfrey sollevò lo sguardo e vide Ario davanti a Merek, guardandolo torvo.

      “Non ucciderlo!” gli ordinò.

      Merek lo guardò accigliato.

      “Gli uomini morti non parlano,” disse Merek. “Se lo lascio andare moriremo tutti.”

      “Non mi interessa,” rispose Ario. “Non ti ha fatto nulla. Non devi ucciderlo.”

      Merek, sprezzante, si alzò in piedi e si portò di fronte ad Ario, fissandolo in volto.

      “Sei la metà di me, ragazzino,” gli sibilò contro. “E il ho il pugnale dalla parte del manico. Non tentarmi.”

      “Sarò anche la metà di te,” rispose Ario con calma, “ma sono doppiamente veloce. Vienimi vicino e ti strapperò il pugnale dalle mani e ti taglierò la gola prima che tu te ne possa rendere conto.”

      Godfrey era stupito da quello scambio di battute, tanto più vedendo quanto calmo fosse Ario. Era una situazione surreale. Non batté ciglio né mosse un muscolo: parlava come se stesse avendo al conversazione più calma al mondo. Questo rendeva le sue parole ancora più convincenti.

      Probabilmente Merek la pensò allo stesso modo perché non si mosse. Godfrey capì che doveva separarli, e presto.

      “Il nemico non è qui,” disse correndo avanti e abbassando il polso di Merek. “È là fuori. Se litighiamo fra di noi non abbiamo alcuna possibilità.”

      Fortunatamente Merek gli premise di abbassargli il braccio e rinfoderò il pugnale.

      “Svelti ora,” aggiunse Godfrey. “Tutti voi. Togliete loro i vestiti e infilateveli. Ora siamo Finiani.”

      Tutti tolsero gli abiti ai Finiani e indossarono i loro mantelli e cappucci rosso brillante.

      “È ridicolo,” disse Akorth.

      Godfrey lo esaminò e vide che aveva la pancia troppo grossa ed era troppo alto. Il mantello gli stava corto e gli lasciava le caviglie scoperte.

      Merek ridacchiò.

      “Avresti dovuto bere un boccale di meno,” gli disse.

      “Io questa cosa non me la metto,” disse Akorth.

      “Non si tratta di una sfilata di moda,” ribatté Godfrey. “Vuoi che ti scoprano?”

      Akorth cedette con riluttanza.

      Godfrey rimase a guardare, tutti e cinque con indosso le tuniche rosse, in quella città ostile, circondati dal nemico. Sapeva che le loro possibilità erano ben magre.

      “E adesso?” chiese Akorth.

      Godfrey si voltò e guardò verso l’estremità del vicolo che portava alla città. Sapeva che era giunto il momento.

      “Andiamo a vedere com’è fatta Volusia.”

      CAPITOLO CINQUE

      Thor si trovava a prua nella piccola imbarcazione, Reece, Selese, Elden, Indra, Mati e O’Connor seduti accanto a lui. Nessuno di loro remava: un misterioso vento e la corrente rendevano vano ogni sforzo. Li trasportava dove voleva e Thor si era reso conto che ogni tentativo di remare o muovere le vele non avrebbe sortito alcuna differenza. Thor si guardò alle spalle, guardando l’enorme scogliera nera che demarcava l’ingresso alla Terra dei Morti farsi sempre più lontana. Si sentiva sollevato. Era ora di guardare avanti, di trovare Guwayne, di dare inizio a un nuovo capitolo della sua vita.

      Thor si guardò accanto e notò Selese seduta nella barca accanto a Reece, tenendogli la mano. Doveva ammettere che quell’immagine era sconcertante. Era felice di rivederla tra loro, di nuovo nella terra dei vivi, e felice di vedere il suo migliore amico così contento. Però doveva anche ammettere che gli trasmetteva una sensazione di inquietudine. Selese ora era lì, una volta morta e ora di nuovo in vita. Sembrava che avessero in qualche modo cambiato l’ordine naturale delle cose. Mentre la guardava, notò che aveva delle caratteristiche translucide, eteree: anche se era veramente lì, in carne e ossa, non poteva fare a meno di vederla come morta; non riusciva a fare a meno di chiedersi, nonostante tutto, se fosse veramente tornata tra loro e quanto tempo sarebbe passato prima che se ne tornasse nel regno dei morti.

      Ma Reece, d’altro canto, non la vedeva a quel modo. Era totalmente innamorato di lei, felice per la prima volta dopo tempo immemore. Thor lo capiva: dopotutto chi non avrebbe voluto rettificare i torti, riparare gli errori passati e rivedere qualcuno che si era certi di non incontrare mai più? Reece le stringeva la mano guardandola negli occhi e lei gli carezzava il viso mentre lui la baciava.

      Notò che gli altri apparivano persi, come se fossero stati nelle profondità dell’inferno, un luogo che non si sarebbero facilmente scrollati dalla mente. Le ragnatele pendevano pesanti su di loro e anche Thor le sentiva, come ricordi che gli lampeggiavano in testa. C’era un’aura di tenebra mentre tutti piangevano la perdita di Conven. Soprattutto Thor rivedeva continuamente tra i propri ricordi la scena,

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