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destinazione?” chiese confusa.

      Erec annuì e guardò nella nebbia.

      Lei seguì il suo sguardo ma non vide nulla.

      “L’Isola del Masso,” le rispose. “La nostra prima tappa.”

      “Ma perché?” gli chiese. “Perché fermarsi prima di raggiungere l’Impero?”

      “Abbiamo bisogno di una flotta più grande,” si intromise Strom rispondendo per lui. “Non possiamo affrontare l’Impero con poche decine di navi.”

      “E troveremo questa flotta nell’Isola del Masso?” chiese Alistair.

      Erec annuì.

      “Può darsi,” rispose. “Gli uomini di quell’isola hanno navi e uomini. Più di quanti ne abbiamo noi. Odiano l’Impero. E hanno servito mio padre in passato.”

      “Ma perché dovrebbero aiutarci ora?” chiese Alistair confusa. “Chi sono questi uomini?”

      “Mercenari,” si intromise Strom. “Uomini rozzi, forgiati da un’isola rozza e da mari rozzi. Combattono per chi offre di più.”

      “Pirati,” disse Alistair con tono di disapprovazione, capendo.

      “Non proprio,” rispose Strom. “I pirati si danno da fare per un bottino. Gli uomini del masso vivono per uccidere.”

      Alistair guardò attentamente Erec in viso e vide dalla sua espressione che era tutto vero.

      “È nobile combattere per una giusta causa insieme ai pirati?” chiese. “Mercenari?”

      “È nobile vincere una guerra,” rispose Erec, “e combattere per un giusta causa come la nostra. I mezzi per pagare una guerra del genere non sono sempre nobili come dovrebbero.”

      “Non è nobile morire,” aggiunse Strom. “E il giudizio sulla nobiltà viene deciso dai vincitori, non dai perdenti.”

      Alistair si accigliò ed Erec si voltò verso di lei.

      “Non tutti sono nobili come te, mia signora,” le disse. “O come me. Che non è così che il mondo funziona. Che non e il modo in cui si vincono le guerre.”

      “Puoi fidarti di uomini del genere?” chiese alla fine Alistair.

      Erec sospirò e si girò nuovamente verso l’orizzonte, con le mani sui fianchi, guardandolo come se si stesse chiedendo la stessa cosa.

      “Nostro padre si fidava di loro,” disse alla fine “E suo padre prima di lui. Non sono mai stati traditi.”

      “E questo significa che non tradiranno neanche voi adesso?” chiese Alistair.

      Erec scrutò l’orizzonte e improvvisamente la nebbia si sollevò e il sole fece irruzione. Il panorama cambiò drasticamente, improvvisamente si riusciva a vedere e in lontananza apparve la terra e il cuore di Alistair le balzò in gola. Lì all’orizzonte sorgeva un’isola fatta di solide scogliere che si levavano dritte verso il cielo. Non sembrava esserci un posto dove attraccare, nessuna spiaggia, nessun ingresso. Ma quando Alistair guardò più in alto vide un arco, una sorta di porta ricavata nella montagna stessa, con l’oceano che vi sbatteva contro. Era un ingresso alto e imponente, chiuso da un cancello di ferro: un muro di solida roccia con una porta intagliata al centro. Una cosa mai vista.

      Erec guardò l’orizzonte attentamente: la luce del sole colpiva l’ingresso come ad illuminare l’entrata di un altro mondo.

      “La fiducia, mia signora,” rispose alla fine, “nasce dalla necessità, non dalla volontà. Ed è un concetto molto precario.”

      CAPITOLO SETTE

      Dario si trovava nel campo di battaglia con la sua spada di metallo in mano e si guardava attorno, osservando il paesaggio. C’era qualcosa si surreale. Anche vedendolo con i propri occhi non poteva credere a ciò che era appena successo. Avevano sconfitto l’Impero. Lui da solo con poche centinaia di abitanti del villaggio, senza vere armi e con l’aiuto delle poche centinaia di uomini di Gwendolyn: avevano insieme sconfitto quell’esercito professionista di centinaia di soldati dell’Impero. Indossavano le migliori armature, maneggiavano le migliori armi, avevano zerte a disposizione. E lui, Dario, armato appena, aveva condotto la battaglia che li aveva sconfitti tutti, la prima vittoria della storia contro l’Impero.

      Lì in quel luogo, dove si era aspettato di morire difendendo l’onore di Loti, ora era invece vittorioso.

      Un conquistatore.

      Mentre scrutava il campo, Dario vide mescolati ai cadaveri dell’Impero corpi delle reclute dei suoi stessi compaesani, decine di morti. La sua gioia venne temperata dal dolore. Flesse i muscoli e si sentì addosso le ferite fresche, i colpi di spada sulle braccia e sulle gambe. Sentiva ancora anche i colpi di frusta sulla schiena. Pensò alla rappresaglia che c’era stata e capì che la vittoria era avvenuta a un prezzo.

      Però, pensò, la libertà lo richiedeva sempre.

      Dario percepì del movimento e si voltò vedendo i suoi amici che si avvicinavano – Raj e Desmond – feriti ma, come fu felice di constatare, vivi. Vide nei loro occhi che lo guardavano in modo diverso: tutto il suo popolo lo guardava ora in modo diverso. Lo guardavano con rispetto; più che rispetto, con ammirazione. Come una leggenda vivente. Avevano visto tutti cosa aveva fatto, da solo contro l’Impero. Sconfiggendoli tutti.

      Non lo guardavano più come fosse un ragazzino. Ora lo guardavano come un capo. Un guerriero. Erano sguardi che mai si sarebbe aspettato di vedere sui volti di quei ragazzi più grandi, negli occhi dei paesani. Era sempre stato quello non considerato, quello da cui nessuno si aspettava nulla.

      Ad avvicinarsi a lui insieme a Raj e Desmond c’erano decine di fratelli d’armi, ragazzi con cui si era allenato e aveva tirato di spada ogni giorno. Erano forse una cinquantina: si alzarono in piedi, si diedero una strofinata alle ferite e si raccolsero attorno a lui. Lo guardavano tutti con ammirazione – e con speranza – mentre teneva la sua spada d’acciaio in mano, ricoperto di ferite.

      Raj si fece avanti ad abbracciarlo e uno alla volta anche gli altri ragazzi fecero lo stesso.

      “È stata una cosa spericolata,” disse Raj sorridendo. “Non pensavo che potessi fare un cosa del genere.”

      “Ero certo che ti saresti arreso,” disse Desmond.

      “Non riesco a credere che siamo tutti qui,” disse Luzi.

      Si guardavano in giro meravigliati, scrutando il paesaggio come se fossero stati tutti appena calati su un pianeta sconosciuto. Dario guardò tutti i corpi morti, tutte le belle armature e armi che scintillavano al sole. Udì gli uccelli che gracchiavano e sollevando lo sguardo vide gli avvoltoi che già volavano in cerchio.

      “Raccogliete le loro armi,” Dario sentì ordinare alla sua voce. Era una voce profonda, più profonda di un tempo, e aveva una certa autorità che lui stesso non aveva mai riconosciuto in sé. E seppellite i vostri morti.”

      I suoi uomini lo ascoltarono e si sparpagliarono andando di soldato in soldato e frugando fra di loro scegliendo le armi migliori: alcuni presero delle spade, altri delle mazze, mazzafrusti, pugnali, asce e martelli da guerra. Dario sollevò la spada che aveva in mano, quella che aveva preso al comandante, e la osservò al sole. Ne ammirò il peso, l’elaborata impugnatura e la lama. Vero acciaio. Qualcosa che pensava di non avere mai l’occasione di tenere in mano in vita sua. Dario intendeva farne buon uso, utilizzandola per uccidere quanti uomini dell’Impero fosse possibile.

      “Dario!” gridò una voce che conosceva bene.

      Si voltò e vide Loti correre tra la folla con le lacrime agli occhi, che andava verso di lui tra tutti gli uomini. Gli corse incontro e lo abbracciò tenendolo stretto, le calde lacrime che scivolavano sul suo collo.

      Lui la tenne a sé.

      “Non dimenticherò mai,” disse Loti tra le lacrime, chinandosi verso di lui e sussurrandogli nell’orecchio. “Non dimenticherò mai ciò che hai fatto oggi.”

      Lo baciò e lui ricambiò il

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