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La vita Italiana nel Risorgimento (1815-1831), parte I. Various
Читать онлайн.Название La vita Italiana nel Risorgimento (1815-1831), parte I
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Автор произведения Various
Жанр Прочая образовательная литература
Издательство Public Domain
Fra l'itale ruine
Gl'itali pregi a celebrare intente.
E salutava il sorgere nel tempio di Santa Croce d'un altro di quei monumenti, dai quali, e dalla storia del nostro pensiero, aveva Ugo Foscolo invocati gli auspicii al risorgimento d'Italia.
Ben può oggi affermarsi, che il primo passo alla unificazione politica fu, in quei primi decennii del secolo, la restaurazione della italianità nel pensiero e nella lingua: della qual restaurazione furono benemeriti anche tali che, nelle conseguenze sue estreme, non avrebber certo voluta preparare l'altra unità; ma questa aveva, lo abbiamo veduto, ragioni di necessità e di diritto che di secolo in secolo l'hanno avviata e guidata, spingendola innanzi anche quando è sembrato che ristesse e indietreggiasse, finchè si sia potuto dire: Siam giunti, e qui stiamo: hic manebimus optime! Non pensava certo a un'Italia dell'avvenire, o ne avrebbe avuto sgomento, il buon padre Cesari, quando straniandosi valorosamente dal gergo italo-franco che aveva finito col sostituirsi alla lingua italiana, scriveva le novellette boccaccevoli, o assettava nel suo artefatto trecento Orazio e Cicerone, e nel volgar fiorentino del Cinquecento manipolava la commedia latina: ed è certo altresì che la Proposta di correzioni al Vocabolario, con la quale il Monti si atteggiò a guerra di lombardo a toscani, attesta, più ancora che della sua dottrina di lingua e vivacità di spiriti indomita, della senile sua incoscienza politica. Ma bene a questa Italia aveva pensato l'Alfieri, quando protestava contro la soppressione che i pedanti della filosofia riformatrice avean fatto dell'Accademia della Crusca: ci pensava il Foscolo quando si appellava alla nazione, dalla sentenza del Gran Consiglio Cisalpino contro la lingua latina: era purista cittadino il Giordani, quando incorando negli amici suoi lo stile greco e la lingua del Trecento, si sottoscrive fratello nel nome dell'«augusta e cara nostra mamma l'Italia»: e filologia preveggente era quella di Niccolò Tommasèo, il quale dalla critica delle dottrine del Perticari, dalla vagliatura fiorentina dei sinonimi, dovea condursi con Daniele Manin al Palazzo dei Dogi, prigioniero prima, poi Ministro della Repubblica, e, fino agli estremi delle armi del colèra e della fame, sostenitore d'un diritto nazionale che al Dalmata si era fin da giovanetto fatto sentire nel caro idioma d'Italia. Sì, il purismo è stato anch'esso una potenza benefica alla costituzione della patria, ravvivando e rivendicando le ragioni della lingua, dagli stranieri influssi e preponderanze corrotta: al corpo poi, così risanato, un possente interprete del pensiero e del sentimento umani, restituiva il vivo alito della toscanità, cioè dell'idioma d'Italia: Alessandro Manzoni. La unità idiomatica avea suggellato del suo stampo il Poema, sul cui fondo, disteso fra «cielo e terra», rilevava in figure immortali il Medio Evo italiano: la unità idiomatica, ricondotta al suo principio vivente, reintegrò quel medesimo suggello sopra un altro, esso pure grande poema, dove la servitù e la corruttela italiana, lungo i più lacrimevoli anni suoi, era ritratta e condannata nella storia di due egualmente immortali figure, di due poveri perseguitati Promessi Sposi del contado lombardo. Ed è questa italianità, di pensiero e di forma, che noi dobbiamo oggi, insieme con la unità che ce la garantisce, custodire gelosamente e propugnare: è questa italianità che noi con trepido affetto consegnamo, raccomandiamo, ai nostri figliuoli. La santa centenaria bandiera, per la quale combattono, soffrono, muoiono da eroi, i nostri soldati, non si difende solamente sui campi di battaglia: ogni cittadino operante è per essa soldato.
Altezze Reali, Signore, Signori,
Quella «storia ideale eterna» che Giambatista Vico idealeggiava, «sopra la quale corrono in tempo tutte le nazioni», assunse nell'alta mente di lui, la figura d'un circolo: dove però il corso dal male al bene soggiacerebbe alla legge del ricorso dal bene al male; e simbolo della vita civile, sarebbe quella linea circolare che «sè in sè rigira», e a cui gli Aristotelici attribuivano maggior perfezione che non alla linea retta, apponendo a questa la manchevolezza dell'essere non finita. Ma Galileo rispose agli Aristotelici; e le teorie del Vico, detrattone quel che di a priori scolastico si aggravava sopr'esse, possono conciliarsi con una legge positiva di progresso, che saldi in armonia scientifica le tradizioni e le speranze del genere umano. Pure, se ad un elemento della vita delle nazioni rimane tuttavia adattabile puntualmente cotesta imagine vichiana del circolo, è a quell'elemento che in sè comprende i caratteri essenziali e distintivi di ciascuna nazione, pe' quali esse rassomigliano a un conserto di famiglie, il cui padre unico sovrasta alle cose terrene. Nel circolo della italianità, nessun progresso è interdetto alla patria nostra: sfasciandosi quello, i movimenti non avrebbero più nè cammino diritto nè meta sicura. Il pensiero e la lingua, gli studi del vero e le arti del bello, le istituzioni e le leggi, descrivono la circonferenza di cotesto circolo: ma nel centro sta, somma di tutte le forze, principio di vita necessario, fortezza ed altare, l'unità della Patria.
LA LOMBARDIA ALLA CADUTA DEL REGNO ITALICO
Signore e Signori,
Il secolo non è finito ancora, e già se noi ci volgiamo indietro a considerare gli avvenimenti che ne agitarono il principio, essi ci appaiono lontani lontani, estranei affatto alla vita nostra, quasi che tra essi e noi intercedesse l'ombra di un intero evo storico, non lo spazio di una vita d'uomo.
A mano a mano che la ricerca erudita, fatta oramai positiva e serena, studia quei casi snebbiandoli dalle leggende che già vi si formarono intorno, e corregge gli errori, ripara alle ingiustizie, assolve i calunniati e condanna gli usurpatori di gloria; mentre la critica si affatica sui documenti e la verità torna in luce; in noi, strano a dirsi, nell'impressione comune di chi oggi ripensa a quegli anni fortunosi, nella coscienza della gente anche istruita, la distanza tra la fine e il principio del secolo cresce di continuo; e gli uomini e i fatti del tempo che segnò la giovinezza dei nostri nonni par che si ritraggano sempre più rapidamente nel buio del passato, vi si avvolgano di una nebbia sempre più densa, impiccioliscano, scompaiano dalla memoria delle moltitudini.
Napoleone, la sua sanguinosa e trista epopea, le catastrofi di Russia e di Germania, quell'avvicendarsi di avvenimenti che soltanto sette od otto decine d'anni fa mettevano a soqquadro l'Europa… e le nostre famiglie, che insidiavano gli averi di cui ora noi stessi godiamo e turbavano e scompigliavano gli amori dai quali i nostri padri sono nati, tutto non sembra – se ci pensiamo – appartenere ad un'altra epoca ben più remota?
La critica moderna «vergine di codardi oltraggi» ma implacabile nelle sue deduzioni positive, ha relegato «l'uomo fatale» tra i malinconici nefasti della storia, fra gli antichi maniaci per la guerra, violenti ed infelici: ed il feticismo che per lui nutrivano i suoi soldati, a noi almeno, appare come un caso diffuso di allucinazione morbosa delle moltitudini.
– Come mai? Donde tanta disparità del vivere e del sentire? – Io credo che tale enorme allontanamento dalla coscienza nostra di uomini e di cose storicamente vicine, non provenga tanto dai molti e varî casi intervenuti tra loro e noi, quanto dal velocissimo, anzi precipitoso cammino compiuto dalle idee in questo intervallo di tempo, che, se per sè medesimo è breve, relativamente alla importanza storica contiene la materia non di uno, ma di più secoli!
Ciò che non è d'oggi o di ieri è già per noi antico: tanto s'è slargato innanzi a noi il mondo, tanto volo abbiamo spiccato incontro all'avvenire! Le idee han soverchiato i fatti, han dato una nuova anima battagliera, feconda, a questo vecchio secolo pieno di esuberanze giovanili, hanno oramai tolto di mezzo quanto del passato poteva esser loro d'impaccio, e abbandonato negli avelli della storia tutto ciò che non era vivo e germogliante… come la calce sparsa sulle rovine di un disastro cela agli sguardi le macerie e i cadaveri insieme.
Ed è per ciò che debbono avere la acuta e perspicace pazienza degli archeologi, coloro che vanno frugando in un mondo pur così vicino a noi, e come gli archeologi debbono saper dar vita alle pietre e parole alle tombe e leggere tra le righe dei non ancora ingialliti documenti, e scrutare il senso riposto delle satire, delle caricature, delle canzoni, delle arguzie, delle tradizioni popolari: debbono svestirsi d'ogni propria passione politica, debbono cercare la luce vera che illuminava quei tempi e giudicare gli odii, e gli amori d'allora come gli odii e gli amori d'adesso, cioè come passioni umane, fallaci quindi ed ingiuste il più delle volte, torbide dispensatrici di fama… e d'infamia, non sempre meritata.
Questo