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imperniato da Lorenzo nella intrinsichezza con Roma papale, e il cui turbamento, loscamente macchinato dal Moro, segna l'era nefasta della intrusione straniera nelle cose d'Italia, fu pur sempre bilanciamento di soli interessi. E ben si addiceva ne descrivesse i congegni il Guicciardini, questo grande scettico della unità di nazione in omaggio alla libertà dei municipii, contro la quale finì egli poi ministro di tirannide; lo descrivesse con quel suo tatto pratico schivo d'ogni idealità, e con la sua impassibile Liviana magnificenza. L'equilibrio che possiamo, da Cosimo il Vecchio al magnifico Lorenzo, chiamare Mediceo, fu maneggiato con quel sentimento pagano di realtà, o quotidiana o archeologica, che caratterizza la politica e la cultura dell'umanismo: e come indarno vi cercheremmo un'alta ispirazione, che dal passato domestico e d'ieri aleggi verso l'avvenire della patria, così da nessuno dei togati umanisti esce pur uno di que' magnanimi accenti d'evocazione, ne' quali il Petrarca, iniziatore di cotesta scuola, con tanta passione congiungeva la Roma antica dominatrice del mondo e quella ch'egli avrebbe voluto veder risorgere, Roma italiana e cristiana, dalle gloriose rovine. Gli accademici vivono nell'antico; i politici lavorano al presente, con tutte le brutali energie della forza e le perfidie sanguinose della frode: finchè un generato e da quelle accademie e da quelle cancellerie, ma sovrano intelletto, Niccolò Machiavelli; – dopo avere nelle ambascerie del suo Comune esercitato le arti di cotesta politica, e nel silenzio campestre del suo studiolo investigato ansiosamente sulle storie di Roma repubblicana il segreto della potenza e della grandezza; – testimone e sperimentatore, e complice egli stesso, di quella collisione di forze, tutte insieme ripugnanti e discordi ad unificarsi, od anche soltanto ad unirsi, e nessuna valida a subordinare le altre o a schiacciarle; – consapevole di quanto egli valga, e fremente di nulla potere; – ficcherà, egli solo fra tutti gli uomini del suo tempo, l'acuto sguardo nell'avvenire, nell'avvenire disperato e lontano; e lo invocherà, e lo attrarrà a sè, con le più generose parole forse che mai, duranti i secoli che Italia non fu, siano uscite da petto italiano. «Provvedetevi» dice egli a quel suo Principe, che nè un Borgia nè un Medici erano degni di essere, nè doveva essere ciò che egli allora era condotto a volere che fosse «Provvedetevi d'armi proprie… che si vedano comandare da loro Principe… per potersi con virtù italiana difendere dagli stranieri… Era necessario che l'Italia si conducesse ne' termini presenti, e che la fusse più schiava che gli Ebrei, più serva che i Persi, più dispersa che gli Ateniesi; senza capo, senz'ordine; battuta, spogliata, lacera, corsa; ed avesse sopportato d'ogni sorta rovine… Vedesi come la prega Dio che le mandi qualcuno che la redima… Vedesi ancora tutta prona e disposta a seguire una bandiera, purchè ci sia alcuno che la pigli… L'Italia vegga dopo tanto tempo apparire un suo redentore. Nè posso esprimere con quale amore ei fussi ricevuto in tutte le provincie…; con qual sete di vendetta, con che ostinata fede, con che pietà, con che lacrime. Quali porte se gli serrerebbono? quali popoli gli negherebbono la obbedienza? quale invidia se gli opporrebbe? quale italiano gli negherebbe l'ossequio?..» Parole fatidiche, le quali non possiamo noi Italiani ripetere senza che il cuore presti alla voce il suo accento; ma che sopraffatte, vivente pure il Machiavelli, dalla violenza delle due grandi Potestà in nome di Roma contro l'Italia alleate, non osò egli stesso riadattare a un altro Medici, il condottiero delle Bande Nere, che con ben altra vigoria avrebbe alzata quella bandiera, se bandiera solamente soldatesca fosse potuta essere: nè furono certamente, coteste parole, nemmen ripensate negli efimeri episodii che quel medesimo secolo ebbe, di qualche cospirazione (quella del Morone, quella del Burlamacchi) contro la signoria straniera. Solo ai giorni nostri, sugli albori ancora incerti del risorgimento nazionale, il Gioberti le convertiva in apostrofe a Carlo Alberto, quando ancora nè il Re aveva vinti gl'intimi contrasti che formavano il suo segreto, nè al filosofo stava in cospetto, come poi sull'estremo limitare della vita, la visione della nuova Italia. Pochi anni ancora: e il successore di quel Re ebbe adempito, fra il 59 e il 70, il vaticinio di Niccolò Machiavelli.

      Nè questa volta erano fatti moderni, ai quali, dopo il grande lavorio di tutta una letteratura civile, quanta intercede dall'Alfieri al Carducci, fosse adattato quasi per parafrasi un simbolo tradizionale della nostra storia e della nostra poesia. Non era l'aquila cesarea di Dante, addestrata col logoro retorico a roteare in larghi giri attorno alla corona dell'Italia plebiscitaria, e librar goffamente su quella corona le vecchie ali spennacchiate: non la navicella d'Enea navigante dalla Sicilia alle foci del Tevere con seco i fati latini, che mostrasse il solco a quella sulla quale Garibaldi e i suoi Mille dallo scoglio di Quarto cercavano «l'isola del fuoco», per muovere di laggiù, con l'Italia di Vittorio Emanuele sulle invitte spade, verso Roma destinata. Erano, questa volta, senza simboli e senza interpretazioni, tali quali il Segretario fiorentino aveva, con fioca o forse già soffocata speranza, invocato, erano finalmente l'Italia redenta e il suo Re.

      È poi notabile, che se altre voci, di ben minore portata, si levarono in quel triste splendido secolo iniziativo del nostro servaggio, mosse da affetto di patria ad augurare dondechessia un liberatore, non furono indirizzate verso quella regione d'Italia di dove la Provvidenza dovea suscitarlo. Scriveva Benedetto Varchi, rilevando l'interessata politica di Venezia nelle cose italiane, e altresì la necessità d'una egemonia nazionale sulle forze vive della penisola, «non essere le fatiche e gl'infortunii d'Italia mai per cessare, infino che i Veneziani (poichè sperare da' Pontefici un cotal benefizio non si dee) o alcuno prudente e fortunato principe non ne prenda la signoria»: e ciò, forse, con qualche intenzione, del tutto cortigiana, al suo duca Cosimo de' Medici; certo, con nessuna ai duchi di Savoia. Nè altri che Venezia e i Pontefici, «Marco e Piero», pensava il Guidiccioni possibili propugnatori dell'indipendenza italica: ma soggiungeva dolorosamente, non avere speranza alcuna dell'opera loro. Nel quale concetto dovevano quei nostri del Cinquecento essere indótti dal considerare lo Stato ecclesiastico e il dominio di San Marco siccome le sole provincie d'Italia, cui non investisse quel complicato intrico d'interessi dinastici paesani, alleati sinistramente con la rapacità straniera, nelle maglie del quale era irretita, per tutto il rimanente, la patria nostra infelice. Ma e il Guidiccioni e il Varchi, uomini di chiesa ambedue, sentivano pure, quanto ai Pontefici, come questa potenziale attitudine del loro Principato a benefizio d'Italia fosse da altre condizioni storiche o contingenze di fatto impedita: il che si era veduto in Giulio II, e si vide poi in Paolo IV; confermandosi sempre la tremenda sentenza con la quale il Machiavelli e il Guicciardini ebbero, quasi con identiche parole, condannata la Signoria temporale dei Pontefici e la corrottissima Curia, dello avere e fatto «diventar gl'Italiani senza religione e cattivi» e «impedita l'unione d'Italia». E quando il Gioberti disegnò e radiosamente colorì l'apoteosi civile del Papato, non però gli resse l'entusiasmo, nè gli bastò l'eloquenza, ad attribuirgli una iniziativa che innanzi tutto bisognava fosse guerriera; ma di questa riconobbe e i caratteri storici e le condizioni giuridiche nel suo Piemonte, anche senza evocare, come avrebbe potuto, le tradizioni di quella che, gesta ambiziosa e di ereditaria ambizione, ma fu pur gesta d'indipendenza italiana, di Carlo Emanuele I. D'allora in poi, dico dal 1848, fu nella egemonia subalpina fermato il concetto, e anticipato con auspicii immanchevoli il fatto, prima, dell'unione, poi dell'unità, d'Italia: di questa unità, alla quale fin dal 1821 era volato il verso di Alessandro Manzoni; della unità italiana, in nome della quale, nel 31, a Carlo Alberto che ascendeva il trono, Giuseppe Mazzini avea mandato il saluto o la minaccia (scegliesse egli) del pensiero italiano; di questa sacra unità, che il venerando Gino Capponi (raccolgo dalle labbra di lui una parola non dimenticabile) diceva essere stata, agli uomini della sua generazione, il primo dei desiderii, l'ultima, perchè la più bella, delle speranze.

      V

      Se non che all'unità politica avea precorso da secoli l'unità intellettuale: l'unità che emerge dal solo fatto del concepire e rappresentare, e il concetto e l'immagine atteggiare esteriormente secondo un ideale e sopr'uno stampo, che è quello e non altro che quello. Nella parola de' suoi poeti, nella mente de' suoi pensatori, nei miracoli dell'arte emulatrice a quella di Grecia e di Roma, nella sospirosa melodia de' suoi canti, nella musica perpetua della sua lingua, l'Italia sempre era stata, e splendidamente era stata. Il sentimento di questa immanente sopravvivenza ai fenomeni transitorii, anche nei tempi più depressi e desolati della nostra storia, si salvò sempre, e con esso fu salva la parte di noi più preziosa: la coscienza di essere, ed esser noi. Non eravamo «in eterno periti», come nella voce di Giacomo Leopardi sonava nel 1818 il pianto d'Italia serva: «In eterno perimmo?»: poichè, rispondeva il poeta,

      Voi, di che il nostro mal si disacerba,

      Sempre

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