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Bachisia camminava pensierosa, e rispose a denti stretti:

      – Sarà un buon avvocato; rosicchierà i clienti fino all'osso: anzi li divorerà vivi e buoni.

      Detto ciò tacquero entrambe. Ad un tratto zia Bachisia inciampò in un sassolino, e mentre inciampava, non si sa perchè, pensò che se Giovanna dovesse un giorno far divorzio, ella avrebbe pregato Paolo ad esser avvocato di sua figlia.

      Erano le otto quando giunsero davanti la cattedrale, al cui fianco le piccole finestre del Tribunale riflettevano nei vetri la luminosità del mattino.

      Nella piccola piazza di granito le due donne ritrovarono molti compaesani, testimoni del processo, alcuni dei quali le circondarono ripetendo la solita parola:

      – Coraggio! coraggio!

      – Ah, coraggio! Ma noi ne abbiamo, ma lasciateci in pace! – disse zia Bachisia, passando fiera come una cavalla indomita. Ella sapeva ben la strada e andò diritta all'aula triste e fatale.

      Giovanna la seguì, seguirono i compaesani, uomini quasi tutti barbuti ed in rozzi costumi, ed entrò anche qualche curioso sfaccendato, ed anche una donna lunga e sdentata con gli occhi loschi.

      I giurati, quasi tutti vecchi e grassi, sedevano già ai loro banchi; uno aveva un enorme naso aquilino, due con barbe folte e occhi selvaggi sembravano banditi, tre, aggruppati, con le teste vicine, ridevano leggendo un giornale.

      Apparve il presidente, dal viso roseo circondato d'una scarsa barba bianca; il pubblico ministero, giovine, con baffi biondi diritti in un viso sanguigno di prepotente; il cancelliere, l'usciere: nelle toghe nere a Giovanna essi parevano maghi, feroci maghi venuti lì per stregare fatalmente il povero Costantino.

      Egli stava nella gabbia, come un grande uccello fremente, tra le figure granitiche dei carabinieri, e guardava verso Giovanna, ma senza più sorriderle. Sembrava oppresso da cupa tristezza, e davanti a quegli uomini arbitri del suo destino, i suoi occhi limpidi di bambino s'offuscavano di terrore.

      Anche Giovanna si sentì prendere il cuore da una mano di ferro; a momenti quella stretta le dava punture di dolore fisico.

      L'avvocato, un piccolo giovine giallo-roseo, aveva cominciato a parlare con vocina stridula e femminile. La sua difesa era stata già abbastanza disgraziata: ora egli ripeteva le cose già dette, e le sue parole cadevano nel vuoto, come stille d'acqua in un gran vaso senza eco.

      Il pubblico ministero dai baffi dritti conservava la sua aria insolente; qualche giurato credeva di far molto mostrando un viso paziente; gli altri, a giudicarli bene, si capiva che neppure ascoltavano. Soltanto zia Bachisia e Giovanna e l'accusato ponevano mente alla replica della difesa, e più l'avvocato parlava più si sentivano perduti.

      Qualche altra persona giungeva, ponendosi dietro Giovanna, che ogni tanto volgevasi vivacemente per vedere se Paolo veniva. Non sapeva perchè, ma lo aspettava ansiosamente, quasi la presenza dello studente potesse giovare all'accusato.

      Quando l'avvocato tacque, Costantino balzò in piedi, si fece rosso e chiese di parlare.

      – Ecco… ecco… – disse con voce incerta, additando il difensore, – il signor avvocato ha parlato… mi ha difeso… ed io lo ringrazio; ma non ha parlato come volevo io… non ha detto, ecco, non ha detto…

      Si fermò anelante.

      Il presidente disse:

      – Aggiungete pure alla vostra difesa tutto ciò che credete.

      L'accusato rimase pensieroso ad occhi bassi, rifacendosi pallido: poi si passò la mano un po' convulsa sulla fronte, quasi graffiandosi, e sollevò il capo.

      – Ecco, – cominciò a voce bassa, – io, io… – Non potè proseguire; strinse il pugno, si volse inviperito verso l'avvocato e gridò con voce tonante:

      – Ma lo dica dunque che sono innocente, che sono innocente io!

      L'avvocato mosse una mano accennandogli di calmarsi; il presidente sollevò le sopracciglia come per dire: – ma se egli lo ha detto cento volte; è colpa nostra se non possiamo crederci? – e un singulto di donna fremette per la sala.

      Era Giovanna che piangeva: zia Bachisia la trasse fuori riluttante e piangente, e tutti, tranne il pubblico ministero, diedero uno sguardo alla lotta delle due donne.

      Poco dopo la Corte si ritirò per deliberare.

      Zia Bachisia, seguita da due compaesani, trasse Giovanna sulla piccola piazza, ed invece di confortarla si mise a sgridarla. Che era pazza del tutto? Voleva che la cacciassero via con la forza?

      – Se non stai zitta ti dò tanti pugni, in fede mia, – concluse.

      – Mamma mia, mamma cara, – singhiozzava l'altra, – me lo condannano, me lo perdono, che essi siano maledetti, ed io non posso far nulla, io non posso far nulla…

      – Cosa volete farci? – disse un compaesano. – Non potete far nulla come è vero che son vivo. Abbiate pazienza. E del resto aspettiamo ancora un po'…

      In quel momento apparvero tre figure nere, una delle quali rideva e zoppicava. Era Paolo Porru fra due giovani preti suoi amici.

      – Eccola là, – disse lo studente. – Pare glielo abbiano già condannato.

      – In mia coscienza, osservò uno dei preti – pare davvero una puledra: e dà anche dei calci, pare…

      L'altro cominciò a guardar Giovanna con curiosità; poi tutti e tre i giovani amici si avvicinarono alle Era, e Paolo chiese se il dibattimento era finito.

      Uno dei preti chiese:

      – È quello che ha ucciso lo zio?

      L'altro continuava a guardar Giovanna che andava calmandosi.

      – Egli non ha ammazzato nessuno! – disse fieramente zia Bachisia, – Assassini sarete voi, corvi neri.

      – Se noi siamo corvi, voi siete una strega, – rispose il giovine prete.

      E qualcuno dei presenti rise.

      Intanto Giovanna, che alle esortazioni di Paolo s'era calmata, promise di non far scene se la lasciavano rientrare nella sala. Rientrarono tutti assieme; mentre i giurati riprendevano i loro posti, dopo breve deliberazione.

      Un silenzio profondo gravò sulla sala calda e cupa: Giovanna udì una mosca ronzare intorno ad un ferro della finestra; poi le parve che tutte le sue membra s'appesantissero, che lungo il corpo, lungo le gambe, lungo le braccia le si infilzassero delle spranghe di ferro gelido.

      Il presidente lesse la sentenza con voce bassa e indifferente, mentre l'accusato lo guardava fisso, col respiro sospeso. Giovanna udiva sempre il ronzar della mosca, e provava un impeto d'odio verso quell'uomo roseo dalla barba bianca, non per ciò che leggeva, ma perchè leggeva con voce bassa ed indifferente. E quella voce bassa e indifferente condannava a ventisette anni di reclusione l'omicida che aveva premeditato lungamente il delitto e lo aveva compiuto sulla persona d'uno zio carnale suo tutore.

      Giovanna era tanto sicura d'una condanna a trenta anni che ventisette le parvero assai di meno; ma fu un istante: subito calcolò che tre anni, in trenta, contavano niente, e si morsicò le labbra per non urlare. La vista le si ottenebrò, con uno sforzo disperato di volontà guardò Costantino e vide, o le parve vedere, il viso di lui grigio e invecchiato, e gli occhi di lui velati e smarriti nel vuoto. Ah, egli non la guardava; non la guardava più neppure! Era già diviso da lei per l'eternità. Era morto, essendo ancor vivo. E l'avevano ucciso quegli uomini grossi e pacifici che stavano ancora lì indifferenti, in attesa d'un'altra vittima. Ella sentì smarrire la ragione: all'improvviso udì grida selvagge echeggiare per la sala, qualcuno l'afferrò e la trascinò fuori nella piazza gialla di sole.

      – Ma possibile, figlia mia? Ma tu sei pazza? Tu urli come una bestia; – disse zia Bachisia, trascinandola pel braccio. – A che pro poi? C'è l'appello, ora, c'è la cassazione, anima mia, sta' quieta!

      Tutto questo accadde in pochi istanti. Tutti i testimoni, l'avvocato, Paolo Porru, circondarono le due donne e cercarono consolarle. Giovanna piangeva senza lacrime, con

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