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zia Martina con ironia. Ella aveva ripreso il fuso e filava vicino alla porta aperta. – T'interessano assai, quelle donne, Brontu Dejas!

      Silenzio. S'udiva il rotolìo del fuso e il suono dei forti denti di Brontu che masticavano il pane duro: e al di fuori, al di là del portico, lo zirlare dei grilli, e più in là, nella solitudine delle macchie, nella calda oscurità della notte incipiente, il grido melanconico dell'assiuolo.

      Brontu si versò il vino, prese il bicchiere e aprì la bocca, ma non per bere. Voleva dire una cosa a sua madre, ma non potè. Bevette: alcune goccie rimasero sulla sua barbetta rossa, ed egli le forbì col dorso della mano, abbassando gli occhi e aprendo ancora le labbra per dire quella cosa. E neppure questa volta potè dirla.

      Ed ecco un suono di scarponi nella spianata. Zia Martina, sempre filando, s'avvicinò al figlio, disse che veniva Giacobbe Dejas, prese il canestro ed il vino e li ripose nell'armadio.

      Entrando, Giacobbe s'accorse dell'atto della vecchia e pensò che ella nascondesse il vino per non offrirgliene un bicchiere; ma era troppo uomo di mondo (così egli diceva) per offendersi, e si avanzò sorridente e lieto.

      – Scommetto, – disse, portandosi un dito al naso – scommetto che parlavate di me.

      – No. Parlavamo di quel povero Costantino Ledda.

      – Ah, sì, povera creatura! – disse Giacobbe, facendosi serio. – E dire che è innocente! Innocente come il sole! Nessuno meglio di me potrebbe affermarlo.

      Brontu si mise in posa, accavalcando le gambe, rovesciandosi un po' indietro e mostrando i denti come faceva con le donne.

      – Le opinioni sono varie! – disse con voce nasale. – Mia madre, per esempio, ha sognato che lo avevano condannato alla morte.

      – O no, Brontu, cosa dici! Ai lavori forzati!

      – Bè, fa lo stesso. Parliamo di noi.

      – Parliamo di noi, – disse Giacobbe, accavalcando anch'egli le gambe.

      Parlarono e conclusero l'affare del servizio di Giacobbe, poi i due uomini uscirono assieme, e Brontu condusse il nuovo servo alla bettola. Giacchè egli non era avaro, e se qualcuno andava a trovarlo a casa non gli dava un bicchiere di vino per non irritare la madre, ma poi lo conduceva alla bettola, dove si mostrava splendido. Quella sera fece bere tanto Giacobbe e tanto egli stesso bevette, che si ubbriacarono.

      Usciti poi nello stradale buio e silenzioso, dove spandevasi il profumo aspro dei campi inariditi, ripresero a parlare di Costantino, e Brontu disse crudelmente che era contento della condanna.

      – Va' al diavolo! – gridò Giacobbe. – Tu sei un uomo senza cuore.

      – Ebbene, sì, sono un uomo senza cuore.

      – Perchè Giovanna non ti ha voluto, tu ti contenti della morte di un tuo simile, anzi di qualche cosa peggiore della morte?

      – Egli non è morto, e non è mio simile, e Giovanna Era son io che non l'ho voluta. Se l'avessi voluta, ella mi avrebbe leccato la suola delle scarpe.

      – Bum! Bada che cadi, uccellino di primavera. Tu sei bugiardo come una serva.

      – Io? Io… non… sono… una… serva! – gridò Brontu, staccando le parole. – Se tu mi ripeti una cosa simile, ti prendo per il cocuzzolo e ti ammazzo.

      – Bum! Ti ho detto che cascavi per terra, uccellino di primavera! – gridò anche Giacobbe.

      Le loro voci risuonarono nella notte silente; ma poi tacquero e tutto fu di nuovo silenzio. In lontananza, al brillare delle stelle, che incoronavano di fiori d'oro i profili di sfinge delle montagne nere, l'assiuolo batteva sempre il suo grido melanconico.

      E ad un tratto Brontu si mise a piangere; uno strano pianto d'ubriaco, senza lagrime nè singhiozzi.

      – Ebbene, che hai? – chiese l'altro a voce bassa. – Sei ubriaco?

      – Sì, sono ubriaco. Ubriaco di veleno, che tu possa morire affogato, avanzo di galera!

      L'altro si offese, perchè non era stato mai non solo in carcere, ma neppure colpito da una contravvenzione, e fu preso da un vago timore. Disse, sempre piano:

      – Tu diventi matto; che hai, perchè parli così? che ti ho fatto io?

      Allora l'altro si sfogò, lamentandosi come se gli facesse male qualche membro, e disse che amava Giovanna come un pazzo, e che aveva sempre pregato il diavolo perchè Costantino venisse condannato.

      – Si pigli pure la mia anima il diavolo, non mi importa nulla, tanto io non credo a lui! – disse poi; e rise, con un riso stridente e fanciullesco, più desolante del pianto di poco prima. – Io sposerò Giovanna.

      Giacobbe si meravigliò, ma dimostrò una meraviglia ancor maggiore di quella che realmente sentiva.

      – Io sono come un uomo affogato! – disse. – Come, perchè, cosa vuol dire tutto ciò? Come tu puoi sposare Giovanna?

      – Farà divorzio, ecco tutto. Ebbene? C'è una legge che alle donne, il cui marito è condannato a molti anni di reclusione, permette di riprendere marito.

      Giacobbe aveva già sentito parlar di ciò, ma nessun caso di divorzio legale e tanto meno di nuovo matrimonio erasi ancora avverato in Orlei; tuttavia per non mostrarsi stupido disse subito:

      – Ah, sì, lo so. Ma è peccato mortale. Giovanna non vorrà.

      – È questo che mi affligge, Giacobbe Dejas! Vuoi tu parlargliene? Sì, parlagliene domani.

      – Sì, proprio domani! Come sei stupido, Brontu Dejas. Sei ricco ma sei stupido come una lucertola. Eppoi sei ancora più stupido. Tu che puoi sposare una donna pura, ricca, una fanciulla simile ad una rosa rugiadosa, tu vuoi sposare quella donna lì. In verità mia c'è da ridere per sette mesi…

      – Ebbene, che tu possa ridere fino a spaccarti come il frutto del melograno! Io la sposerò! – disse Brontu, arrabbiandosi di nuovo. – Nessuna donna è come lei. Io, vedi, io la sposerò!

      – E sposala, uccellino di primavera! – rispose l'altro ridendo. Anche Brontu si mise a ridere; e risero assieme per lungo tratto di via, finchè videro un uomo alto, con un lungo bastone, venire loro incontro a passi silenziosi.

      – Zio Isidoro Pane, avete fatto buona pesca? – gli chiese Giacobbe. – Sono ben punte le vostre gambe?

      – Che tu possa diventare pescatore di sanguisughe, – disse l'altro, avvicinandosi. – Che odore di acquavite! Ah, devono aver rotto qualche barile, qui!

      – Tu vuoi dire che noi siamo ubriachi? – chiese Brontu, minaccioso. – Tu non ti ubriachi perchè non hai con che; allontanati o ti ammazzo. Ti schiaccio come una rana…

      Il vecchio fece una risatina soave e si allontanò.

      – Stupido, – disse Giacobbe a bassa voce. – Egli può farti l'ambasciata; è amico di Giovanna.

      – Ebbene, – cominciò a gridare Brontu, volgendosi e scuotendo le braccia, – vieni, vieni! Vieni qui, ti dico, Sidore Pane, che ti morsichi il cane!

      Rise della sua rima ben riuscita, ma Isidoro non si fermò.

      – E dunque! – gridò ancora l'ubriaco, balbettando un po', – ti dico di venire! Ah, tu non vuoi venire, piccolo rospo? Ti ho detto…

      Ma Isidoro s'allontanava a passi silenziosi.

      – Non dirgli così, che modo è questo? – mormorò Giacobbe.

      Allora Brontu cambiò metodo.

      – Fiorellino, vieni! Vieni chè ho da parlarti. Dirai a quella donna tua amica… ebbene, sì, a Giovanna, che se fa divorzio io la sposo.

      Allora il vecchio si fermò di botto, si volse, chiamò con voce sonora:

      – Giacobbe Dejas!

      – Che volete, anima mia? – chiese il servo con voce sarcastica.

      – Fallo

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