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addosso quella roba.

      Fu caso o fu volere della Provvidenza? Mentre il marchese intendeva che quegli oggetti fossero riposti entro la piccola tasca cui egli stesso aveva rimessa al collo del bambino, Nariccia non fece altro che ficcarli in mezzo ai risvolti della fascia che lo cingeva, lasciando pendere vuoto il sacchetto al collo di lui.

      – Nariccia, disse poscia il marchese con quel suo accento che era da incutere timore a chicchessiasi: voi mi avete disubbidito, e ciò non dimenticherò mai più. Quel bambino non aveva da trovarsi mai, e voi stesso dovevate smarrirne le traccie: eccovelo invece innanzi agli occhi… Ora me ne impadronisco e ne dispongo io stesso… Stolto voi se poteste credere ch'io mi lasciassi vincere da debolezza d'animo fiacco e rimpiangere e voler mutare quello che ho fatto. Il figliuolo di quel miserabile ho condannato alla sorte che gli spetta, e non ne avrà altra nel mondo… Voi, voi non mi comparirete più dinanzi, eccetto che un mio ordine espresso vi richiami.

      L'antico intendente non trovò parole da rispondere: era furibondo nel suo intimo contro se stesso per esser caduto nella pania; s'inchinò profondamente innanzi al marchese che passava più fiero che mai dirigendosi all'uscio per partire.

      – Prendete quell'involto: comandò il padre d'Aurora al servo, accennandogli con un moto della testa il bambino: e seguitemi.

      Se ne uscirono così tuttedue. Il vecchio, come se gli fosse tornata tutta la vigoria della salute, camminava diritto della persona, colla sua mossa superba e l'aspetto pieno d'autorità; il domestico lo seguiva in silenzio. Si avviarono verso una delle strade le peggio rinomate della vecchia città; e quando furono alquanto inoltrati per essa, il marchese si fermò; il suo fidato servitore s'arrestò del pari, interrogando collo sguardo, colla parola non osava, il padrone su ciò che si dovesse fare.

      Non v'era anima viva in quella fredda oscurità della notte; una brezza sottile e ghiaccia soffiava alle cantonate. Il marchese additò il mezzo dell'acciottolato della strada, dove un rigagnolo fangoso tutto congelato rendeva ronchioso il terreno.

      – Deponetelo colà: comandò al servitore.

      Questi, fosse pietà che lo assalisse, o non potesse credere a tanta barbarie nel suo padrone, esitò.

      – Avete capito? disse il marchese con quell'accento che non permetteva indugio all'obbedire.

      Il servo si chinò a terra e depose pianamente su quella fanghiglia gelata il suo fardello.

      – Poverino! pensava egli: domattina lo troveranno tutto un ghiacciuolo.

      Mentre stava per rialzarsi, la voce del padrone gli diede un altro comando:

      – Toglietegli quel sacchetto che gli pende dal collo e riponetelo nelle vostre tasche.

      Il domestico ubbidì; poi si volse al padrone per vedere se altro ancora avesse da fare; ma in quella nel marchese parve venir meno ad un tratto tutta quell'energia che fino allora lo aveva sostenuto: egli si appoggiò alla muraglia della casa presso cui si trovava, e disse con voce appena se intelligibile:

      – Ah! mi sento mancare.

      D'un balzo il servitore gli fu presso e lo sorresse nelle sue braccia.

      – Glie l'avevo detto io, Eccellenza, che non si avventurasse a tanto sforzo.

      – Conducetemi a casa: mormorò il vecchio, abbandonandosi nelle braccia del servo, il quale recandoselo quasi in braccio, s'affrettò verso il palazzo, vi penetrò per la porticina e la scaletta, e senza che alcuno avesse pur sentore della loro uscita, lo guidò nel suo appartamento e lo coricò, mentre i denti del vecchio battevano dalla febbre.

      Due ore dopo, il marchese alquanto riconfortato, disse al servo che non s'era mosso dal suo fianco:

      – Datemi qui quel sacchetto.

      Il domestico se lo trasse di saccoccia e lo porse al giacente; ma questi lo ebbe appena tocco colla sua mano che mandò un'esclamazione di rabbia e disappunto: il sacchetto era vuoto.

      Il marchese credette ad un inganno di Nariccia e mandò tosto da costui quel suo servo fidatissimo perchè ne tornasse ad ogni modo con quegli oggetti che aver voleva in poter suo. Il domestico fu di corsa in casa l'usuraio, ma non potè ottenerne che le più vive proteste, aver egli rimesso addosso al bambino quei contrassegni: e il mandatario del marchese s'affrettò allora verso quel luogo dove il fanciullo era stato abbandonato. Era presso l'alba e un pallidissimo chiarore già spuntava sopra la collina all'orizzonte: qualche passo di cittadino mattiniere incominciava a suonare per le strade ancora oscure, in cui venivano spegnendosi i lampioni municipali; alcuni carri di ortolano e di lattaio dei dintorni facevano saltare le loro ceste e le loro bigoncie correndo sull'acciottolato al trotto dei loro ronzini sollecitati dal chioccare importuno della frusta. Giunto a quel luogo dove il fanciullo era stato deposto, il servo non vide più nulla; invano percorse tutta quella straducola, il fantolino era scomparso. Dovette ritornare con queste novelle al suo padrone, che ne rimase assai poco soddisfatto. Pareva al marchese che il suo proposito di volere affatto smarrita quella creaturina, corresse così pericolo di non venire ottenuto, e un giorno o l'altro potesse ripresentarsi innanzi alla nobile sua famiglia quell'essere che a suo vedere ne incarnava una disgraziata vergogna.

      Ma, tra le emozioni di quella notte, la rabbia del non compiuto successo, lo strapazzo fisico che la sua volontà aveva imposto al corpo affaticato ed infermo, avvenne che la malattia del marchese il giorno dopo s'aggravò notevolmente, ed una settimana non era ancora trascorsa che un mesto corteo accompagnava a Baldissero, per seppellirla nel fastoso sepolcro de' suoi maggiori, la salma del padre di Aurora.

      Questa un anno dopo acconsentiva a sposare il conte di Castelletto, il quale l'amava tuttavia, e del quale essa ignorava compiutamente la parte avuta in quel funesto duello che le aveva tolto il primo marito. Che ogni ulteriore ricerca del figliuolo fosse inutil cosa, le nuove asseveranze di Nariccia congiunte colle parole del defunto marchese avevano finito per mandare persuasi tanto Aurora medesima quanto il fratello di lei. Da questo maritaggio nasceva poscia Virginia; ed era questa giunta appena ai due anni, che un fatalissimo destino la orbava del padre e della madre, e questa, morendo, la raccomandava al fratello, a cui finalmente aveva perdonato di tutto l'animo.

      Di questa lugubre storia narrava il marchese a Virginia quelle cose soltanto ch'egli sapeva e che potevano conferire all'assunto ch'egli s'era proposto: di far vedere alla fanciulla come un amore per uomo che non appartenesse alla sua classe non potesse avere altro risultamento che di dolori e sventure. Quali fossero le impressioni di Virginia sarebbe stato difficilissimo giudicare dal suo aspetto: tanto ella aveva ascoltato e tanto rimase anco di poi immota, senza un accento, senza uno sguardo, senza un atto che ne rivelasse l'intimo sentire. E se avesse dovuto dire quali fossero queste sue impressioni, non avrebbe manco saputo ella stessa, poichè le si affollavano intralciate, confuse, poco meno che inestricabili.

      Superiore ad ogni altra era una grande compassione per la povera sua madre. Dapprima però la sua era stata come una delusione: la madre, di cui ella non ricordava nulla, di cui non conosceva che la mite fisionomia dall'aria dolorosamente rassegnata, la quale le volgeva un mesto sorriso dal ritratto ch'ella teneva appeso a capoletto come un quadro di Madonna, la madre era per lei qualche cosa di sopraterreno, di superiore a tutte le cose e le passioni del mondo, ed udire parlare di cosa che poteva dirsi fallo di lei, tornava a Virginia quasi una profanazione. Poi tosto la somiglianza del suo coll'affetto di sua madre le destò un più ardente trasporto di simpatia verso la memoria di quell'estinta che tanto aveva sofferto; sentì un subito moto di repulsione verso lo zio che aveva tal dolore inflitto alla povera donna, verso quello zio che pure era stato così buono per lei sempre, e ch'ella s'era avvezza ad amare e venerare come padre. La barriera fra sè ed il giovane ch'essa amava, già sapeva quasi insuperabile, il racconto dello zio le dimostrava che era tale senza rimedio: non aveva ella mai nutrito lusinga di speranze, ma ora più chiaro di prima le appariva l'assoluta impossibilità d'ogni ventura.

      Quand'ebbe finito il suo racconto, lo zio le prese fra le sue tuttedue le mani e le disse con accento di amorevolezza infinita:

      – Se io non fossi stato assente, Aurora, mi avrebbe confidato l'amor suo, come tu hai fatto or ora del tuo; e sai tu quello che io le avrei detto? «L'amor tuo è una follia: se tu vi resisti potrà esserti

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