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venivano a fare la perquisizione.

      Ora seguitiamo Francesco, il quale viene condotto alla presenza del terribile signor commissario Tofi.

      Il signor Commissario aveva dormito poco e male. Per la mente commossa tutta notte s'erano dimenate le rivelazioni di Barnaba ad eccitarne lo zelo irrequieto, operoso e prepotente. Egli aveva sognato degli arresti a fusone, e la sua fantasia s'era deliziata nella visione d'un reggimento di liberali mandato a impallidire dietro le inferriate del forte di Fenestrelle. S'arrabbiava della impotenza relativa a cui lo condannava la sua condizione di subalterno, e s'angustiava per non essere in grado di tradurre in atto di propria autorità lo splendido disegno della sua poliziesca immaginativa. Avrebbe dato non so che cosa per trovarsi ventiquattr'ore almanco nell'uniforme da generale del conte Barranchi.

      Effetto di questa insonnia si fu che, appena il mattino, il signor Tofi era nell'anticamera del suo superiore ad insistere presso un domestico sonnoloso che sbadigliava, affinchè lo introducesse presso il padrone. Il domestico che sapeva bene non trattarsi di giuggiole, quando la faccia scura e il soprabito lungo del Commissario comparivano in quelle soglie, si lasciò vincere dalle imperiose parole di messer Tofi ed osò introdursi nella camera del conte a turbarne i dolci sonni mattutini.

      Si ha bell'essere generale dei carabinieri reali e comandante supremo della Polizia, e tuttavia non si va esente da qualche piccolo difettuccio. Ahimè! Non c'è nessuno di perfetto su questa terra. Il conte Barranchi amava supremamente due cose: mangiar molto e bene con ghiottoneria istruita a perfezione nella difficil arte della cucina, e dormire beatamente la grassa mattinata. La sera innanzi egli avea pranzato a Corte, dove i pranzi di Carlo Alberto erano conosciuti per parsimoniosa frugalità; la notte aveva dovuto vegliarla al ballo, ed a sbrigar poi varie faccende, di cui lo aveva intrattenuto il Commissario: e quindi era naturale e necessaria conseguenza di ciò che il suo umore fin dalla sera innanzi non si trovasse nello stadio della sua maggiore amenità, e che massimo fosse in lui il desiderio e il bisogno di dormire tranquillamente sino all'alba dei tafani.

      Per dire il vero, affatto affatto ameno l'umore del signor generale non lo era pur mai. Il suo carattere brusco e violento si era di molto rinforzato nell'impertinente disdegno d'altrui mercè la prepotenza concessa al suo grado ed alle sue funzioni. I suoi modi erano aspri come quegli ispidi baffi che gli ombreggiavano il labbro superiore. Avvezzo a parlare a carabinieri che lo ascoltavano in posture di rispetto per obbedirlo ciecamente, ad inferiori e subordinati che s'inchinavano innanzi allo scoppio della sua voce, come le umili erbe del prato al passaggio del vento, a poveri diavoli o timorosi o colpevoli che tremavano alla impettita severità del suo aspetto, il conte Barranchi trattava con tutti ch'ei non credesse suoi pari, come un caporal tamburo tratta con un allievo tamburino. Figuratevi un po' che cosa dovesse essere quest'umore quella mattina in cui il domestico venne a rompergli il più quieto dei sonni per dirgli che il Commissario era lì che voleva parlargli! Il fatto d'essere stato svegliato era già doloroso e grave; ma vi era di più che sotto il soprabitone del Commissario venivano occupazioni e fastidi da non lasciarlo riaddormentar poi, perchè era persuaso che senza una pressante necessità Tofi non l'avrebbe disturbato. Il signor conte, che bestemmiava in francese, quantunque fosse austriaco in cuore, sparò una dozzina di sacrebleu! minacciò di prendere il domestico per il collo, diede un pugno sul tavolino da notte che mandò in aria il verre d'eau di cristallo di Boemia, agitò minacciosamente la ciocca di cotone che si drizzava con superbia in alto del suo berrettino notturno, e finì per dire che quel malaugurato signor Commissario fosse introdotto.

      Tofi si avanzò con aspetto umile ma sicuro. La pervicacia della sua natura, la coscienza del suo merito poliziesco, l'essere addentro in tutti i misteri di quell'ufficio e in più a varii degli altri rami dell'amministrazione, gli davano eziandio, appetto al suo bizzarro superiore, una certa sicurezza di sè, che, trattandosi d'altro e per altre attinenze, avrebbe potuto anche dirsi dignità. Ciò non toglieva punto che S. E. il conte Barranchi non lo strapazzasse come un cane.

      E fu appunto con una vera bordata d'improperii che il sig. Tofi venne accolto quella fatale mattina. E che gli era insopportabile l'essere perseguitato in quella maniera; e che fastidiosissimo e da sdegnar chicchessia non avere un Commissario che valesse a far da sè e sapesse come governarsi, senza venir a romper la testa e il sonno ad ogni momento a cui la sua alta posizione avrebbe dovuto lasciare più loisirs e meno seccature: parlasse presto e poco e bene, e guai a lui se le comunicazioni che aveva da fargli non fossero di tanta importanza da scusare quell'irriverente procedere.

      Il Commissario, dritto nella postura del soldato senz'armi, il suo largo cappello in mano, i suoi occhi infossati, fissi sul generale, la faccia ossea ferma sul cravattino duro, ascoltò impassibile la sfuriata del conte, e poi colla sua voce rauca, bassa, contenuta, disse ordinatamente e laconicamente quanto aveva appreso da Barnaba.

      A prima giunta siffatte informazioni non parvero abbastanza di rilievo al bravo signor generale. Gridò sbuffando che gli era un prendersi gabbo di lui il venirlo a sturbare per sì poca cosa. Bel miracolo che quattro arfasatti di liberale si radunassero in casa d'un pitocco per combriccolare; cani che vogliono prender la luna coi denti. Che sì che lo Stato aveva da tremare di que' mascalzoni! I becchi d'un cappello da carabiniere li avrebbe fatti scappar tutti come una legione di diavoli dall'acquasantino. Poi se la prese con questa empia incorreggibil razza dei liberali, stupidi matti che avrebbero potuto mangiar e bere e star tranquilli, e volevano ficcare il becco in ciò che loro non toccava. Gli era tempo di finirla mercè qualche buon provvedimento di rigore con questi paladini del disordine; ecchè eravi egli bisogno di andarlo a disturbare di quella guisa, un Commissario che sapesse secondo conviene il dover suo? Si arrestava, si procedeva, si perquisiva; e poi quando e individui, e carte, e tutto, fosse al sicuro, si aspettava un'ora un po' da cristiano per andarne a romper la testa al proprio superiore.

      Tofi sostenne la seconda bordata colla medesima impassibilità colla quale aveva sopportata la prima; quando il conte si tacque, il Commissario fece balenare le sue pupille grifagne nelle occhiaie incavate e chinò leggermente la testa in moto affermativo.

      – Va bene, e mi basta: diss'egli. Avevo appunto in animo di far così; ma le sue raccomandazioni di temperanza ultimamente fattemi e ripetutemi erano riuscite a pormene un po' in suggezione. Ora le sue parole mi levano ogni scrupolo ed io non mancherò di fare secondo le mie ispirazioni. Mi rincresce aver disturbata S. E.: non la scomodo oltre e vado a dar gli ordini che mi sembreranno più opportuni.

      E girò sui suoi talloni per avviarsi alla porta da cui era entrato.

      – Un momento, un momento: gridò il conte levandosi a sedere sul letto, appoggiato al gomito. Diavolo! Come voi ci andate di gamba lesta. Corpo d'uno squadrone! Innanzi a S. M. sono io che porto la responsabilità di tutto.

      La risposta di Tofi gli aveva richiamato alla mente le rampogne fattegli dal pallido, severo labbro di Carlo Alberto per alcune maggiori prepotenze commesse da ultimo dalla Polizia, gli avevano ricordato che ancora il giorno prima il Re, fermandosi innanzi a lui a favorirlo di quella mezza dozzina di parole che soleva regalare ad ogni convitato, facendo il giro della sala dopo il pranzo, avevagli detto:

      – E la sua Polizia, conte Barranchi?

      – Cammina alla perfezione: aveva risposto il generale inchinandosi.

      – Va bene: aveva soggiunto il Re. Spero che non sentirò più richiami di sorta per eccessi che ella commetta. Bisogna essere vigilanti, severi, ma nei limiti delle leggi e senza violare i diritti dei cittadini. Si ricordi, conte, che è mia intenzione precisa che la Polizia nei miei Stati cessi d'essere un arbitrio e diventi sempre più una magistratura.

      Il generale non aveva saputo far altra risposta che inchinarsi di nuovo ed il Re era passato.

      Che cosa precisamente significassero le parole di Carlo Alberto, lo spirito poco arguto del conte Barranchi non lo capiva ben bene. La Polizia una magistratura? Egli non vedeva nessun'attinenza fra queste due cose La Polizia e la sciabola, meno male! Ma il Re da qualche tempo si piaceva a tirar fuori di queste frasi; e il marchese di Villamarina, ministro della guerra, da cui Barranchi dipendeva direttamente, sembrava d'accordo col Re. Ragione di più per acconciarsi a quelle intenzioni, che in fin dei conti erano di mettere la sordina allo zelo degli agenti. Ma il Re aveva pur detto che bisognava essere severi e vigilanti. Fin dove andava la vigilanza e la severità che

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