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anche le unghie, se occorresse, per farsi rispettare, la quale non tollererebbe mai una cosa simile… E poi conviene essere giusti, quei giovani sono a questo riguardo veramente esemplari. Io che ho buoni occhi ed ho buon naso in queste cose… come nelle altre… non ho mai potuto accorgermi di tanto così che avesse un'aria sospetta riguardo ai costumi.

      – Lei mi stupisce. Ci credo perchè gli è Lei che me lo dice; ma che tanti giovinotti si radunino insieme e stieno chiusi in casa sino a notte inoltrata per far che?.. Per guardarsi semplicemente addosso?.. Uhm! la stenterei a mandar giù… Ci deve essere qualche segreto motivo.

      – Eh! il motivo ci sarà fors'anco. In verità pare che abbiano le gran cose d'importanza di cui discorrere. La signora Rosa, la quale si ferma alcune volte a scambiar meco quattro ciarle, non sa nemmanco ella, dice, che cosa facciano, ma dice che si chiudono in una stanza tutti insieme e parlano fitto fitto sottovoce. Ella ha bensì origliato alla porta, ma dice non aver mai potuto capire una parola; ed una volta, dice, che dopo uno di questi colloquii suo marito era più cupo e pensieroso del solito, perchè quasi sempre, dice, dopo siffatte conferenze, il pittore si mostra tutto sossopra; una volta dunque che essa l'ha voluto interrogare, egli, dice, le ha risposto brusco brusco che non ficcasse il becco in codesto che non erano cose di cui occuparsi una donna.

      – Oh oh! Cospetto! Disse il poliziotto, il quale ora non aveva più bisogno di fingere l'interessamento, ma anzi voleva dissimulare quello vivissimo che provava in realtà. Ch'e' facciano i monetari falsi? soggiunse sorridendo.

      – Mai più! L'avvocatino Benda è straricco e non metterebbe le mani in siffatto intruglio…

      In quella giungeva il sedicente Medoro Bigonci, ossia Mario Tiburzio il carbonaro, il quale, come abbiamo veduto, credeva opportuno confabulare colla portinaia un momento prima di salire all'alloggio di Vanardi.

      Se l'istinto di cospiratore, in Mario Tiburzio, gli aveva fatto presentire la spia e il poliziotto nell'uomo che trovavasi nel camerino della portinaia, l'istinto proprio del segugio di polizia aveva da parte sua fatto subodorare a Barnaba in quel sedicente artista di canto qualche cosa che sapeva della ribellione alle leggi ed all'ordine vigente, e Mario non s'era niente affatto sbagliato, quando aveva creduto di accorgersi che quello sconosciuto, tuttochè cercando nascondersene, lo osservava con esperta attenzione.

      Appena Mario venne fuori della stanza di monna Ghita, Barnaba disse vivamente a quest'essa:

      – Quegli è il cantante Medoro Bigonci?

      – Appunto. Gli è un pezzo che mi ha promesso dei biglietti d'entrata al teatro per me e per mio figlio… il quale si chiama Bastiano come suo padre, ma spero che non diventerà un bestione come suo padre.

      Barnaba meditava fra sè.

      – L'aspetto di quell'uomo non mi è nuovo. Fra le tante figure che mi sono passate innanzi nella mia vita così avvicendata, vi fu certamente anche quest'essa; ma dove e quando e come?.. L'accento della sua parola è romano… che io abbia dunque veduto codestui nel mio soggiorno a Roma?

      Ad un tratto la nebbia che avvolgeva i suoi sovveniri parve squarciarsegli innanzi alla mente, e credette veder chiaro in essi, col suo vero nome e col vero esser suo, la figura dell'uomo che era passato.

      Non potè frenare un'esclamazione, mentre e' si diceva a se medesimo:

      – Conviene che ne esamini di meglio la persona, che lo veda almanco a camminare.

      – Che cos'è stato? Disse la portinaia stupita, vedendo il suo compagno alzarsi di scatto.

      Il poliziotto non ebbe altro spediente per ispiegare la sua mossa che dire la verità.

      – Mi pare aver ravvisato quel signore per un cotale che ho conosciuto altrove, e voglio chiarirmi se ciò gli è vero o no.

      Uscì sollecito dal camerino e seguitò con passo riguardoso il cospiratore, la cui ombra vedeva disegnarglisi innanzi nello scuriccio della scala male illuminata.

      Mario Tiburzio s'accorse d'esser seguìto, ma non mostrò di porvi mente e continuò col suo solito passo il suo cammino.

      Quando furono giunti all'ultimo pianerottolo, i sospetti di Barnaba s'erano quasi convertiti in certezza.

      – Gli è lui senza fallo: disse a se stesso. È il rivoluzionario che fuggì in Roma medesima ai gendarmi papali che l'avevano arrestato.

      Poichè Mario si fu introdotto nella stanza dove l'aspettavano i compagni, Barnaba s'accostò con cautela all'uscio, pose l'occhio e poi l'orecchio alla toppa, e vedendo che non poteva nulla scorgere nè udire di quanto avveniva colà dentro, si dirizzò della persona e collo stesso andar riguardoso si tolse di là e tornò nello stanzotto di monna Ghita.

      – M'ero affatto sbagliato, diss'egli a costei; quel signor cantante mi è perfettamente sconosciuto. Ora non mi resta che ringraziarla della gentilezza con cui Lei mi ha trattato e partirmene che gli è tardi.

      – Si figuri!.. Tutta a suo servizio. La Ghita è conosciuta per essere la più servizievole del mondo. Mi rincresce non saperle dir nulla del medico che Lei cerca…

      Il poliziotto pensò fare ancora uno sperimento.

      – Ah! Ora me n'è venuto in mente il nome: esclamò egli. Si chiama il dottor Quercia.

      La portinaia tornò a riflettere un momentino e poi rispose:

      – Non lo conosco davvero; non l'ho mai sentito a menzionare.

      Barnaba soggiunse:

      – È amico dell'avvocato Benda. Glie l'ho visto insieme più volte.

      – Allora forse mio marito che è portiere alla casa Benda saprebbe dirgliene qualche cosa.

      – Lei non lo vede mai suo marito?

      – Una volta ogni morte di vescovo… e non cerco di più sicuramente. Un villanzone manesco che quando è in collera usa certi argomenti per aver ragione… E non c'è verso di parlargli senza farlo andare in collera. Avrebbe avuto bisogno di aver per moglie un ceppo di legno e non una donna viva. Con lui avrei dovuto tagliarmi la lingua, cucirmi la bocca e vivere come una mummia… Basta! Una buona ispirazione glie ne venne, sono già anni parecchi, d'andarsene egli pei fatti suoi e di lasciar me ai miei. È tornato al servizio dei Benda, dove era già stato fin da giovinotto. Ha una divozione per quella famiglia, che la sommission del cane pel suo padrone non gli è nulla.

      L'agente della polizia che non aveva più cosa alcuna da spillare alle ciancie di monna Ghita, troncò lì il discorso, salutandola ed augurandole la felice notte con mille ringraziamenti, ed uscito di quella casa, s'avviò di buon passo verso Piazza Castello.

      – Ecco un uomo assai gentile e garbato: disse la portinaia chiudendo dietro di lui il portone. È strana come ei rassomiglia al fumista!.. Ma guarda mò che ha finito per non dirmi chi egli è!

      CAPITOLO VIII

      Barnaba, giunto in Piazza Castello, entrò nel Palazzo Madama e s'intromise in una stanzaccia a pian terreno che serviva di anticamera all'ufficio del Commissario. Due guardie di polizia sonnecchiavano là dentro, mezzo sdraiate su panche di legno, vicino alla stufa in cui ardeva un fuoco vivace. Allo entrare di Barnaba le guardie si alzarono in piedi e salutarono militarmente con segno di rispetto.

      – Il Commissario? Domandò con accento asciutto e vibrato il nuovo venuto.

      – È fuori dell'ufficio, rispose una delle guardie, ma ordinò che se Lei veniva le si dicesse d'aspettarlo.

      Barnaba fece un segno col capo come per dire:

      – Sta bene; e passò in una camera vicina, a cui si accedeva per uno stretto e scuro corridoio.

      Era meno grande della stanza in cui si trovavano le guardie. Una lampada ad olio con un cappello da riflettere il lume pendeva dalla metà della vôlta e la rischiarava debolmente. Le pareti nude, colorite a calce, erano grigie per la polvere e pei ragnateli. Il pavimento fatto di quadrelli di cotto era ronchioso per sudiciume rammontatovi su dai piedi di chi andava e veniva, senza che la granata si fosse immischiata mai a tentare una spazzatura. Da due parti correvano presso la muraglia delle panche lunghe, coperte di

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