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come in varii punti pendeva a brandelli la lista, che, imbullettata all'estremità presso il legno della panca, doveva formare l'orlo da rattenere l'imbottitura. Alla parete che si trovava di faccia a chi venisse dal corridoio, non c'era panca, ma si vedeva in mezzo una scrivania posta in modo che chi vi sedesse avesse le spalle volte al muro, e in un angolo una porticina stretta e bassa con un uscio di legno di rovere irto delle capocchie di grossi chiovi, che pareva affatto un uscio di prigione. A destra di chi entrava si apriva un gran finestrone che guardava nei fossi del castello. Una tavola con sopravi un tappeto di panno verde sbiadito e sporco stava a metà della stanza sotto la lampada. Non c'era camino nè stufa e si sentiva entrando colà dentro un freddo umido ed uggioso che vi penetrava nelle ossa.

      Barnaba si diresse tosto verso la scrivania e guardò le carte che vi si trovavan sopra. Erano rapporti di agenti subalterni, di carabinieri reali e lettere diverse d'ufficio: tutte cose indifferenti che il poliziotto scorse con occhio sbadato. Uno soltanto di quei fogli parve commuoverlo. Era il rapporto d'una rissa avvenuta a Porta Palazzo sulla piazza del mercato fra due saltimbanchi, di cui uno aveva ferito di coltello l'altro: il feritore era stato arrestato. Barnaba lesse due volte quel foglio, e la sua faccia si imbrunì stranamente; poi depose colle altre quella carta e fece due o tre giri per la stanza, la testa china, il volto cupo, come chi è assalito da dolorosi pensieri. Si fermò un istante presso la finestra, appoggiò ad una traversa dell'intelaiatura dell'invetrata la fronte, e rimase lì un istante a guardar fuori, innanzi a sè, ma con certi occhi che non vedevano gli oggetti esteriori, sibbene le immagini di qualche scena del passato evocata dalla sua memoria. Dopo un poco egli si riscosse, mandò un profondo sospiro, e venne a sedere presso la tavola di mezzo, sul tappeto della quale appoggiò il suo gomito, facendo sorreggere la testa alla palma della mano. Rimase immobile in quella positura, e pareva tutto intento a guardare il fiato che usciva dalla sua bocca addensato in vapore dal freddo ambiente di quella stanza.

      Passò così più d'un'ora senza che quest'uomo si movesse altrimenti. Già da tempo era suonata la mezzanotte alla chiesa di S. Lorenzo, quando una voce rauca, ruvida ed imperiosa suonò improvvisa alle spalle di Barnaba.

      – Ah! siete voi pur finalmente!

      Barnaba sorse in piedi di scatto, e volgendosi si trovò in faccia al sig. commissario Tofi.

      Un uomo alto e magro, di ossatura grossa e di membra asciutte: una faccia lunga colla mascella inferiore larga e molto sviluppata; una bocca enorme ed un naso monumentale; una fronte quadra colle ossa sopraccigliari proeminentissime e le occhiaie infossate; un colorito ulivigno e i capelli neri brizzolati; non un pelo di barba sulla faccia rasa accuratamente; un'espressione burbera e maligna; un alto e duro cravattino sotto il mento, un lungo soprabitone abbottonato sino al collo, con due grosse tasche ai due lati in sulle anche, un cappello basso a larga tesa in testa: tale era il temuto e temibile commissario, signor Tofi.

      Barnaba lo salutò con umile deferenza, e l'altro, coll'accento più severo di rampogna che possa usare un superiore verso un subordinato in fallo:

      – Gli è bene una fortuna, disse, che abbiate ancora avuta la degnazione di venire: di tutta stassera non ci è stato verso di vedervi.

      – Signor Commissario: rispose Barnaba: non ho mica impiegato tutto questo tempo a divertirmi; e credo aver giovato anzi non poco al servizio. Vengo apportatore di informazioni che ritengo assai preziose.

      Il signor Tofi lo guardò un poco entro gli occhi con quell'espressione feroce e minacciosa che gli era ordinaria.

      – Sì? Diss'egli poi col medesimo tono ruvido e rimbrottoso. Udremo queste meravigliose informazioni, e vedremo se il loro valore è da farvi scusare del vostro ritardo. Intanto comincierete per istamparvi bene in mente le istruzioni e gli ordini che vi ho da dare. Venite nel mio gabinetto.

      Camminò con passo militare verso l'uscio cui ho detto irto di chiovi di ferro; trasse di tasca una grossa chiave che introdusse nella toppa, ed aprì. Entrò esso primo ed a tastoni fu ad un caminetto, sopra la pietra di sporto del quale eravi un candeliere con una mezza candela di cevo. Accese quest'essa con un fiammifero che sfregò alla muraglia; depose il candeliere sopra la scrivania che si trovava nella profonda strombatura della sola finestra per cui là dentro penetrasse luce ed aria, e poi volgendosi a Barnaba che stava dritto sulla soglia, dissegli con quell'accento secco e imperativo:

      – Entrate e chiudete.

      Barnaba s'inoltrò, chiuse l'uscio e fece scorrere un catenaccio; poi rimase lì aspettando i comandi e le interrogazioni del suo superiore.

      Questi depose il suo largo cappello sopra un forzierino che trovavasi presso il caminetto, trasse dalle tascone laterali del soprabito due pistole a doppia canna e le mise sopra la scrivania, poi si accoccolò presso il focolare e colle sue mani medesime si diede a frugar fra la cenere se ancora vi fosse qualche carbone acceso; ne trovò alcuni, li raccolse, vi pose su delle scheggie di legna, un po' di carte stracciate che prese in una cesta apposita, e vi soffiò su robustamente colla sua bocca; si scaldò un momento le mani grosse, quadrate, nere, villose, alla fiamma che non tardò a levarsi, e poi drizzatosi della persona, fregandosi ancora l'una contro l'altra le sue manaccie, si volse a Barnaba, che era sempre stato immobile al suo posto, e gli disse:

      – Ora a noi!

      Sedette alla scrivania, e Barnaba si accostò fino ad appoggiarsi con una mano all'orlo della medesima. La fiamma della candela, oscillando all'aria che s'intrometteva dalle fessure della finestra, mandava una luce rossigna, ora più, ora meno intensa, sulle fisionomie caratteristiche di quei due uomini, sulle protuberanze della fronte bassa, sulle linee aspre, direi quasi, della faccia del Commissario, sui lineamenti pallidi ed incerti e sull'aspetto reso insignificante per mirabile effetto di dissimulazione dell'agente segreto; al di sopra di quest'ultimo quella luce oscillante faceva danzare le ombre sul fondo della parete e tingeva di color sanguigno i busti di Carlo Felice e di Carlo Alberto che sopra due mensole appiccate alla parete guardavano coi loro occhi senza pupille e colla loro faccia impassibile di gesso le misteriose scene che succedevano in quel sancta sanctorum della Polizia.

      – Vengo adess'adesso da S. E. il conte Barranchi: così disse il Commissario. E' mi ha mandato a chiamare per un grave scandalo che è successo poco fa al ballo dell'Accademia filarmonica. Un borghese da nulla ha osato insultare il figliuolo d'un'Eccellenza: il marchesino di Baldissero; e ciò mentre nel palazzo medesimo trovavasi Sua Maestà!

      Chinò il capo in atto di riverenza, e Barnaba fece altrettanto.

      – L'insultatore è l'avvocato Francesco Benda.

      Barnaba levò il viso, e fece un atto che significava:

      – Conosco chi è e ne so le novelle.

      Tofi seguitava:

      – Spinse l'audacia fino a sfidare a duello il marchese. S. E. è decisa d'impedire che un simile eccesso abbia luogo. Credevo che fosse per ordinare senz'altro l'arresto di quell'avvocatuzzo, e glie ne dissi; ma S. E. per certi nuovi riguardi preferisce farlo cogliere in sull'atto al momento del duello. Ho pensato di affidare a voi questa operazione. Conviene adunque che scopriate l'ora ed il luogo in cui dovrà succedere lo scontro e che allorquando sieno coll'armi alla mano li sopraccogliate in flagranti. Il marchese lo lascierete andare, l'avvocato, colle armi che sequestrerete, lo condurrete qui. Avete capito?

      L'agente fece un cenno affermativo.

      – Ora, continuava il Commissario, vediamo un poco l'impiego della vostra serata, e sentiamo quelle informazioni che voi dite tanto preziose.

      Barnaba cominciò modestamente a parlare.

      – Sono stato, come il solito, nella bettola di Pelone…

      Il Commissario lo interruppe con ruvida ironia:

      – E vi credete avere scoperto qualche cosa di nuovo intorno al furto avvenuto la notte scorsa nella casa del signor Bancone?

      – No: rispose ancora più modesto il poliziotto: non ho scoperto nulla; ma mi sono persuaso sempre pili che gli autori di esso appartengono alla famosa cocca, di cui i caporioni si radunano nella taverna di Pelone.

      – Bella scoperta! interruppe di nuovo il signor Tofi, crollando villanamente le spalle. Ve ne dirò io di più:

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