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la voce, ripetendo le cose stesse.

      Non appena i soldati di linea si ritirarono nell'appartamento del custode, non appena il palazzo fu in balia della guardia civica, che fu dato l'adito indistintamente ai grandi, ai sicari ed alla plebe di penetrare in esso liberamente. Il conte senatore Verri si offrí di perorare al popolo, ed a lui si unirono li conti senatori Massari e Felici. Piú volte andarono e tornarono e riferirono sempre l'inutilità de' loro sforzi, perché non emergeva cosa volesse un popolo tumultuante che sollevava grida confuse. Il conte Verri dette in Senato una carta che disse essergli stata posta in mano da persona incognita e che non si ebbe tempo di leggere. Alcun senatore, che vi gittò sopra una rapida occhiata, vide che era scritta di carattere alterato, e nel primo paragrafo esponeva che, come la Spagna e la Germania avevano dato l'esempio, cosí doveva scuotersi dagli italiani il giogo francese.32 La moltitudine si tratteneva nella gran corte, e niuno si faceva lecito di salire il maestoso scalone del palazzo. Furono i civici ufficiali che la incoraggiarono, la spinsero, e già in un momento il gran portico contiguo alla sala della seduta ridondava di popolo. Di piú, due cavalieri erano alla porta della prima anticamera, e senza entrare in essa si limitarono a prestare il loro nobile officio ed introdurre a forza que' tali che alla medesima si avvicinavano. Finalmente si restituí l'ultima volta in seduta il conte Verri, e palesò che non restavano che due soli minuti a deliberare, o tutto era perduto. Si domandò cosa alla perfine si domandasse dai senatori. Gli uffiziali della guardia civica, e tra essi il capo battaglione Pietro Balabio, erano entrati nella sala con viso pallido, alteratissimo, come di uomini cui non erano famigliari i delitti. Il capitano Benigno Bossi esclamò ad alta voce che si voleva il richiamo della deputazione e la convocazione dei Collegi. Il presidente, sull'insinuazione di qualche senatore e senza alcuna precedente regolare deliberazione, scrisse: «Il Senato richiama la deputazione e riunisce i Collegi». Lo stesso capitano sortí dalla sala con questo foglio, e quindi, senza aver parlato con persona, come attestano gli uscieri del Senato, rientrò esclamando essere intenzione del popolo che si dichiarasse sciolta la seduta, e questo stesso scrisse di nuovo il presidente, con aggiungerlo in altro foglio in questi termini: «Il Senato richiama la deputazione, e riunisce i Collegi elettorali, ed è sciolta la seduta». Piú di trenta copie ne furono all'istante scritte dai segretari, dagli impiegati e dalli stessi uffiziali civici, che dopo averle fatte soscrivere dal presidente le recavano al di fuori.

      Ciò conseguito si attendeva che fosse dissipato il tumulto; ma ben altre essendo le viste dei tumultuanti, crebbe anzi il disordine sempre piú. I senatori sortir dovettero da altra porta, e dietro di essi si affollò con impeto il popolo concitato. Il conte Confalonieri fu il primo a scagliarsi contro il ritratto di Napoleone dipinto dal celebre Appiani, che con l'ombrello ruppe e gittò dalle finestre, dalle quali egli il primo cominciò a gettare le suppellettili della sala. Il suo nobile esempio fu avidamente eseguito dalla plebe. Sedie, tavolini, specchi, stufe, persino le persiane, le stesse porte, tutto fu fracassato e gittato in istrada. L'istessa sorte subirono i parati, i tappeti e parte delle carte e dei libri. Non erano ancora tutti i senatori fuori del palazzo che tutto era in preda al saccheggio, da cui fu solo in quel giorno risparmiata la segreteria, e l'appartamento del conte cancelliere. Niuno dei senatori fu offeso nella persona, alcuno solamente fu urlato di nuovo.

      Cessò la depredazione e lo spoglio, allorché alcuno dei capi andò spargendo la voce che era tempo di portare la vendetta ed il furore contro il Ministro delle finanze. Tutto il popolo, ed alla testa di esso quelli che si coprivano di seriche ombrelle, corsero al di lui palazzo. Infelicissimo conte Prina! Egli era stato avvertito fino dal giorno innanzi di quanto si macchinava contro di lui; nella mattina fece ogni sforzo un di lui cugino per condurlo a Pavia nella propria vettura: impavido volle rimanere al suo posto, fidato nell'attività della polizia, nella facilità di reprimere una sommossa al suo primo scoppio, e nell'opinione invalsa sempre che l'ardore della plebe milanese fosse fuoco di paglia, ristretto, come si vede giornalmente nelle loro risse, a semplici parole, non estensibili ad eccessi di fatto. Tanto è vero che a niuno è dato di evitare il proprio destino, contro il quale non siamo trattenuti né dalle sollecitazioni di persone sensate, né dalla forza e dalla maturità del raziocinio, né dalla evidenza stessa del pericolo! Non fu che la presenza del medesimo che inducesse il conte Prina a pensare finalmente alla sua salvezza: atterrate le porte, fuggiti i domestici, invaso da ogni parte ed occupato il palazzo, fu allora che si risolvette a nascondersi; ma non era piú in tempo, non vi rimase piú scampo veruno. Inutilmente il mantovano Barone de Peyri, generale di divisione, si cacciò in mezzo alla folla in uniforme e tentò di salvarlo; nulla ottenne se non qualche momento di sospensione, e terminò col farsi strappare le fibbie d'oro dalle scarpe e le catene degli orologi. Il conte Prina fu rinvenuto, fu preso, denudato, percosso, strascinato, e rovesciato a capo in giú da una finestra.

      Rifugge l'animo a rammentare la lenta carneficina e il feroce trastullo fatto a sangue freddo di un uomo cui pure niuno niega che fosse per ingegno, per facondia e per dottrina chiarissimo, e della di cui onestà ha fatto fede non dubbia il ristretto patrimonio lasciato. Mentre il basso popolo si è abbandonato al saccheggio del palazzo, dopo averlo spinto gli altri nell'atrio di una casa contigua, gli hanno fatto percorrere tutta la contrada del Marino sino alla piccola piazza del teatro della Scala: questa e quella erano ricoperte di agitate ombrelle vario-colorate. Vicinissimi erano il palazzo della polizia, quello del ministero della guerra, quello dell'intendenza ove un folto numero si era raccolto di guardie di finanza. A tutti fu interdetto di accorrere in suo aiuto; chi solo aveva mezzi ed autorità per salvarlo, se si fosse prestato con un atto di volontà deliberata, e non con ciarle artificiosamente vaghe, anzi allarmanti, passeggiava in una contigua contrada in compagnia del conte Luigi Porro. Un buon negoziante di vino, esso solo ascoltò un sentimento di pietà, ed in un opportuno contratempo lo strappò dalle mani della moltitudine e nella sua cantina il nascose. Furenti erano gli ammutinati sul timore di averlo perduto. Scoprirono l'asilo, minacciarono d'incendio il mercante, finché l'infelice Prina, visto il pericolo del suo benefattore e non isperando per sé altra risorsa qualunque, si offerí in istrada alla ferocia de' suoi assassini, e «sfogatevi, disse, sfogatevi pure sopra di me, poiché sono già immolato alla vostra rabbia; ma fate almeno che sia l'ultima questa vittima». Estreme, memorande parole, dopo le quali non ebbe piú lena di proferirne. Fu allora che in mezzo agli scherni ed agli insulti volle ciascuno la sua parte di gloria nel percuoterlo coi puntali delle loro ombrelle. Per circa quattro ore gli fu fatto desiderare un colpo decisivo, che terminasse lo strazio. Egli è morto e strascinato per la città con torchi accesi, e trasfigurato tanto che aveva perdute le forme e l'effigie. È fama che il giudice di pace, nell'ispezione fatta del suo cadavere, non trovasse chi lo riconoscesse, come che non trovassero i professori tra le tante contusioni una ferita, una offesa veramente mortale: egli è morto d'angoscia e di spasimo.

      Intanto chi può descrivere lo spoglio totale del suo palazzo, e la veemenza e la prontezza della rapina? In poche ore non vi erano piú suppellettili non meno ordinarie che preziose, non una porta, non una finestra, non una pianta, non una persiana, un vaso, un utensile nell'amenissino giardino annesso. Tant'oltre si spinse la depredazione e la devastazione che tutte furono schiantate e rubate le moltissime ferrate, e cosí i calcani delle porte, i chiodi, i condotti, i canali dei tetti. I tegoli stessi furono sollevati tutti e scomposti, per la smania d'indagare nel tetto alcun tesoro nascosto. Insomma, un ampio, maestoso e ricco palazzo pubblico fu ridotto in brevi istanti uno scheletro trasparente, che il governo ha poi giudicato miglior partito di far demolire e formarci una piazza, la quale offrirà maggior comodo alle carrozze affluenti al vicino teatro.

      Il Podestà di Milano, in mezzo all'imponenza di tanta sciagura, non trovò altro compenso che far stampare ed affiggere il decreto estorto al presidente del Senato, e successivamente pubblicare egli stesso un proclama, in cui dichiarò che il generale Pino andava ad assumere il comando delle forze della capitale, che i Collegi elettorali de' dipartimenti non occupati dalle armi delle AA. PP. coalizzate si sarebbero riuniti in una sola camera, al piú tardi nel giorno 22 dello stesso mese, e che il Consiglio comunale della capitale si radunava nell'indomani, tenendosi in seduta permanente sino a che le circostanze lo esigessero, e che i reclami tutti si dirigessero alla Municipalità che li avrebbe fatti pervenire ai Collegi.

      La giornata del ventuno fu una forse delle piú allarmanti e terribili, che abbia mai veduto Milano. Il folto popolo, allo spuntar del giorno, era in aspetto sedizioso per le contrade tutte

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<p>32</p>

«Les Français étaient assez généralement aimés, et on les regrette aujourd'hui; tandis, au contraire, que les Autrichiens ont toujours été détestés, qu'on les hait encore plus, et que le nom de Tudesco (Tudesque, ou Allemand) donné à un Italien, est une injure des plus vives. Sous la domination des Français, les Italiens jouissaient des apparences de toutes leurs libertés; ils embellissaient leur pays; ils protégeaient les arts, l'industrie, le commerce; la presque totalité des emplois étaient occupés par des nationaux. Maintenant ils ne rencontrent que des entraves, et les Autrichiens gouvernent en conquérans».