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piccino; e s’egli era piccino,

      la sua reggia era grande e nera nera.

      E un aio aveva questo reattino

      nero, e l’aio era lì sempre a gracchiare,

      e più, quando vedea torbo il mattino.

      Il re veniva alle finestre a mare,

      il re veniva alle finestre a monte:

      «Avessi l’ale! Potessi volare!»

      Nitrir sentiva alla sua voce pronte

      le sue pulledre sparse alla pastura

      nel grande prato ch’era dopo il ponte.

      E quel nitrito, per le antiche mura,

      per gl’infiniti muti colonnati,

      destava i cani; e nella reggia oscura

      rimbombavano in tanto alti latrati.

II

      Or una fata l’ode. Ecco, sia fatto!

      La gran reggia doventa una gran macchia

      a colonne di pino e d’albogatto.

      Nera tra i lecci vola una cornacchia.

      È l’aio. Vola su brentoli e mortelle,

      libero, il recacchino, il redimacchia.

      E il curvo collo svincolano snelle

      quelle pulledre scalpitando, ed ecco

      ch’elle frullano azzurre cinciarelle.

      Tengono l’osso ancora (od uno stecco?)

      le cinciallegre, piccoli mastini,

      sotto le zampe, e picchiano col becco.

      Dunque, dagli albigatti esse e da’ pini

      fanno la guardia, e il re ne’ suoi sambuchi,

      tra molta signoria di fiorrancini,

      regna, e si svaga con la caccia ai bruchi.

III

      Così, vedete, il cacciator che gira,

      vede calare un branco. Egli bel bello

      s’appressa, egli già mira, egli già tira…

      suona un nitrito tremulo d’uccello,

      come starnuto, suona un bau bau chiaro,

      come doppio squillar di campanello;

      e il branco fugge prima dello sparo.

      L’AVEMARIA

I

      E poi sazi sorgevano: le zolle

      sbriciò l’aratro, della terra nera,

      dietro le vacche non ancor satolle.

      Rosa, con gli altri e con Viola, a schiera,

      ricopriva le porche col marrello.

      Babbo voleva aver finito a sera.

      Il dì passò tra sole e solicello:

      il sole s’insaccò, né tornò fuori,

      e Montebello si pose il cappello.

      Stridule, qua e là, di più colori,

      correan le foglie: non s’udia per gli ampi

      filari che il vocìo degli aratori.

      Palpitavano, a tratti, larghi lampi;

      serrava il cardo le argentine spade;

      ma tutta la sementa era nei campi.

      Venne la sera ed abbuiò le strade.

II

      E le vacche tornavano alle stalle;

      e la gente, ciarlando per la via,

      saliva co’ marrelli su le spalle.

      Sonò, di qua di là, l’Avemaria:

      si sentì la campana di San Vito,

      si sentì la campana di Badia.

      Era nel cielo un pallido tinnito:

      Dondola dondola dondola! – A nanna

      a nanna a nanna! – Il giorno era finito.

      Ora il fuoco accendeva ogni capanna,

      e i bimbi sazi ricevea la cuna,

      col sussurrare della ninnananna.

      E le campane, A nanna a nanna! l’una;

      l’altra, Dondola dondola! tra il volo

      de’ pipistrelli per la costa bruna.

      A nanna, il bimbo! e dondoli, il paiuolo!

III

      La madre era su l’uscio, poi che intese

      un parlottare ed uno scalpicciare

      tra la confusa romba delle chiese.

      Ed un lampo alitò sul casolare,

      e bianche bianche illuminò le strade;

      e il capoccio ella udì dal limitare,

      che diceva: «La festa il dì che cade!»

      LA NOTTE

I

      Nella notte scrosciò, venne dirotta

      la pioggia, a striscie stridule infinite;

      e il tuono rotolò da grotta a grotta.

      Egli, il capoccio, avvolto nel suo mite

      tacito sonno, non udiva. Udiva

      nascere l’erba. Vide le pipite

      verdi. Il grano sfronzò, quindi accestiva.

      Nevicava, in suo sogno, a fiocco a fiocco:

      candido il monte, candida la riva.

      No: quel bianco era fiori d’albicocco

      e di susino, e l’ape uscìa dal bugno

      ronzando, e il grano già facea lo stocco:

      Anzi graniva; ch’era già di giugno.

      La cicala friniva su gli ornelli.

      Egli l’udiva, con la falce in pugno.

      L’acqua veniva stridula a ruscelli.

II

      L’acqua veniva, stridula, a ruscelli.

      Rosa dormiva e non udiva: udiva

      cantare al bosco zigoli e fringuelli.

      Era nel bosco, nella reggia estiva

      del redimacchia. Intorno udìa beccare.

      gemme di pioppo e mignoli d’uliva.

      E la macchia pareva un alveare,

      piena di frulli e di ronzìi. Ma ella

      sentiva anche un frugare, uno sfrascare,

      un camminare. Chi sarà? Ma in quella

      che riguardava tra un cespuglio raro,

      improvvisa cantò la cinciarella.

      E sonò d’ogni parte il bau bau chiaro,

      come un tintinno, delle cincie; ed ecco

      pronto all’orecchio risonar lo sparo.

      Ma era un tuono, che rimbombò secco.

III

      E tra il tumulto carezzò Viola

      che s’era desta e che piangea. Pian piano

      l’addormentava. E Rosa rifù sola.

      Pensava… i licci della tela, il grano

      della sementa, il cacciatore… e Rosa

      lo ricercava. Dove mai? Lontano.

      In una reggia. E risognò… Che cosa?

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