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iovanni Prati

      POESIE SCELTE

      RITRATTO FISICO DELL’AUTORE

      Alto e giusto di forme, e brun di volto;

      Nero di ciglia; intento occhio che splende;

      Fronte mobile ed ampia; il crin mi scende

      Giù per le spalle abbandonato e folto.

      Sotto i mustacchi impallida o s’accende

      Il labbro; agil la voce, il piede ho sciolto;

      Pronti i gesti; talor l’abito incolto;

      Ecco il visibil che di me si rende.

      I pochi o i tanti che non m’han veduto,

      Come leggendo suol crear l’affetto,

      Mi fingono sottil, macro e sparuto;

      Ma in viso il fior della salute io mostro.

      Che importa mai? Si scrive carmi; e il petto

      Fuor manda sangue a colorar l’inchiostro!

      RITRATTO MORALE

      Or che pinto è il di fuor, l’intimo sguardo

      Tenti l’intima vita, e tragga il vero.

      Son uom; dunque ier prode, oggi codardo;

      Guato il mondo, al ciel penso e di là spero.

      Mesto e gaio in brev’ ora; umile e altero;

      Subitano al concetto, all’opra tardo;

      Vago di lode, indocile d’impero;

      Soave, e un po’ talor brusco e beffardo.

      Ma simulato mai. Credo al ben; tento

      Di farlo; amo chi il fa; spregio la ingrata

      Genìa de’ vili; ardite cose io sento.

      E come sento, arditamente dico.

      Che val s’io batterò via sconsolata?

      Son più del ver che di me stesso amico.

      LA MIA CRONACA DI POETA

      Ognun ha il suo diavolo all’uscio.

Prov.

      Uno stess’orto germina

      L’arancio e la cipolla,

      Stampa uno stesso artefice

      Il vaso illustre e l’olla;

      E incido anch’io, poeta,

      Nel marmo o nella creta

      Febo con Marsia, e Cesare

      Da lato a Calandrin.

      Ma è sogno da nottambuli

      Piacere al mondo. Or odi,

      Savio lettor, la cronaca

      Del tuo poeta. E godi,

      Godi, chè Dio ti fece

      Per la viuzza, invece

      Che sotto a’ nembi avvolgerti

      Su pel dirceo cammin.

      La libreria dell’avolo

      Là nella mia Dasindo

      Mi cominciò gli oracoli

      A bisbigliar di Pindo;

      Ma l’irto pedagogo

      Gittommi il Dante al rogo,

      Tonando dal suo tripode:

      Pane il cantar non dà.

      Pur gli uccelletti cantano

      E trovan pane anch’essi,

      Io mi diceva; e incorrere

      L’ire tremende elessi,

      E, con sul petto il peso

      Di quel mio Dante acceso,

      Dissi alle rose e ai zeffiri

      La negra iniquità.

      Ma il buon curato, il sindaco,

      Lo spezïal persino

      Piangean co’ miei le indocili

      Follie del birichino,

      Ed eran pie soltanto

      Del birichino al canto

      Le cingallegre, i taciti

      Venti e il fiorito april.

      Scesi alla dotta Padova

      Col fardellin dei carmi,

      Lode cercando; e rigido

      Nessun volea lodarmi.

      Chi con la lente al naso

      Mi ruppe il segnacaso,

      Chi mi gualcì l’epiteto,

      Chi mi castrò lo stil.

      Dafni una volta e Fillide

      Cantai, del Zappi a modo,

      E il molle ovil dei Titiri

      Si liquefece in brodo.

      Ma dai novelli troni

      I torbidi Platoni

      Sentenzïâr che pecora

      Nacqui e dovrei morir.

      Allor destai de’ pallidi

      Fantasmi la famiglia,

      E l’antro de’ romantici

      Muggì di maraviglia.

      Ma i Pindari e gli Orfei

      De’ logori Atenei

      Colle titanie folgori

      M’han fatto impallidir.

      Poi sulla terra apparvero

      Scole, congressi, asili,

      Metodi ed altre olimpiche

      Buffonerie simili.

      E allor perdei la scrima

      Del verso e della rima,

      E in quel concilio d’aquile

      Nessun mi numerò.

      Belava un’effemeride:

      «Volgi ad amor gl’inchiostri!»

      Ruggiva un periodico;

      «Vendica i dritti nostri!».

      Sclamava una rivista:

      «Canta materia mista!».

      E il suo bastardo simbolo

      Ognun mi balbettò.

      Io, spinto fra le cattedre

      Di Caifa e di Pilato,

      Che far potea? Sugli omeri

      Mi son ravviluppato

      La veste d’Ecce homo,

      E, pubblicando un tomo,

      Spiegai, bruchetto incognito,

      L’ali iridate al sol.

      Greche e romane forbici

      Fûr su quell’ale in guerra.

      Quanto superbo scandalo

      Fra i Danti di mia terra!

      Dalle laringi dotte

      Schiattâr pustéme e gotte;

      Diede itterizie e coliche

      Di quel bruchetto il vol.

      Senza sentir più redine,

      Senza voler più freno,

      Corsi a Milan col rotolo

      Di Edmenegarda in seno,

      E a ricercar mi mossi

      Manzoni, il Torti, il Grossi,

      E assunto al tabernacolo,

      Fissai la trinità.

      Ed ella, austera e candida

      Come le sante cose,

      Al

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