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coi fazzoletti, o colle bucce delle castagne, quando si fermava sui quadri, o sulla cordicella dei fanali, o sullo stipite delle porte. Solamente la sposa, che approfittava della confusione generale per lasciarsi prendere qualche piccolo acconto dal marito, e la bella Ottavia, che temeva sciupare la veste in quelle strette, si tenevano discoste, attente allo spettacolo. Il povero canarino aveva già corsa tutta la stanza, in giro, un centinaio di volte; ma dàlli e dàlli, chi la dura la vince; colpito in mezzo al corpo da una castagna, precipitò dritto in un angolo, rasentando il muro, sfinito, con le ali aperte, distese. La Veronica, ansante anche lei, e colla gocciola al naso, gli si avvicina piano piano, in punta di piedi, fa cenno alle compagne di scostarsi, e gli è addosso col fazzoletto, ma il canarino trova il verso di fuggire ancora, e volando di traverso, passa così vicino all’Ottavia, che lo prende di colpo, con tutte due le mani.

      Il baccano fu indiavolato, lo schiamazzo assordante, e le più sfacciate allusioni non rispettavano nemmeno la veste di don Vincenzo; mentre la Veronica diventava verde dalla rabbia, Sandro diventava pallido per il dispetto, e saliva un pudibondo rossore sulla fronte onorata del signor Niso.

      Lalla e miss Dill si recarono dagli sposi dopo che Maria era andata a dormire, e ciò per non lasciarla sola tutta la sera, e per non mettere in soggezione gli ospiti, finchè mangiavano il tacchino e il croccante. Infatti, quando si presentò la duchessina coll’istitutrice. la brigatella si mostrò un poco intimidita e vergognosa: nessuna sapeva più come muoversi, nè quali discorsi incominciare e i più arditi tentavano appena una scempiaggine a mezza voce, coll’aria di voler dire: – Guardatemi, che io non soffro di soggezione! – Soltanto la Nena e la sposa, l’una per dimestichezza, l’altra fatta ardita dalla felicità che le schizzava dagli occhi, furono attorno, con ogni festa, alle due signore, mentre Ambrogio guardava fra le lacrime la figliuola della sua padroncina, la guardava con le mani giunte, come la Madonna, povero vecchio, senza essere buono d’infilare una parola sola di tutta la grande poesia d’affetti che gli prorompeva dal cuore. Il sindaco, che altre volte si era trovato con Lalla, fattosi animo, ruppe il ghiaccio, e presa per mano la Veronica, con un discorsetto di circostanza la presentò alla duchessina; cosa che il signor Niso non ebbe mai il coraggio di tentare, quantunque vi fosse spinto dall’Ottavia con certi pizzicotti nelle braccia da lasciarvi il livido.

      Lalla fu amabilissima colla Veronica, forse per mortificare quell’altra, e si congratulò con lei per i bellissimi versi che la sindachessa aveva dati alle stampe in onor della sposa; versi che incominciavano così: – Bella, immortal, benefica – fiamma ai tormenti avvezza… Questa fa l’unica soddisfazione ch’ebbe la Veronica in tutta la sera; ma fu per altro una grande soddisfazione!

      Intanto, a poco a poco, l’affabilità e la scioltezza della signorina avevano rimesso il buon umore nella festicciuola. L’organista, che aveva approfittato dell’interruzione per rifarsi col vin rosso e coll’Asti spumante, ricominciò, sulla spinetta, una mazurca strisciata. Lalla e la miss, ci s’intende, non presero parte al ballonzolo, e anche don Vincenzo, che si era dato al serio, stava seduto vicino a miss Dill e le faceva una corte silenziosa, interprete e complice la tabacchiera. Ma tuttavia, se il reverendo poteva rinunciare alle occhiatacce sull’Ottavia, non sapeva dividersi da quel vinello rosso, limpido, abboccato, con una punta di sale, e, colla scusa di offrirne alla miss, se ne teneva sempre accanto un vassoio coi bicchieri colmi. Le coppie che avevano cominciato a muoversi composte, serie ed attente, volendo mostrare alle signore la loro singolare perizia, terminarono presto, eccitate dal calore del vino e dall’ardore dei sensi, a ballare per il piacere di ballare e di stringersi, a suono di musica. Composta, grave, arcigna, la signora Veronica, col suo vecchio vestito di seta nera, ballava col signor Francesco, il cuoco della duchessa, tenendosi impettita e impalata dinanzi al ballerino, col mazzetto di Verghiss che le batteva il tempo sul capo, serrata nell’abito fino al mento, perchè non potendo, pur troppo, essere impudica, come quella sporca dell’Ottavia, si sfogava sfoggiando il suo permaloso pudore di donna magra. Il signor Francesco le insegnava il modo di montare la crema e di farla spumante; ma la donna istruita aveva ben altro da osservare; teneva fissa la coda dell’occhio, augurandosi fosse avvelenata sopra Sandrino e quell’altra che, così stretti, riscaldati dall’alito e dall’ardore reciproco, avevano rifatta la pace e si scambiavano torrenti di voluttà cogli occhi, colle mani, colle ginocchia, dimentichi affatto del mondo e del signor Niso, il quale, per incarico avuto da Ambrogio, preparava lo zucchero nei bicchierini del punch con parsimonia e giusta misura. Sandrino e l’Ottavia formavano la coppia più scandalosa; peraltro dopo quella degli sposi, che ballavano sempre insieme, che perdevano il tempo spessissimo, e allora, vergognandosene, fuggivano a nascondersi, non si sa dove, per riapparire poco dopo, l’uno dietro all’altra, lui pallido, lei rossa rossa, spettinata e coll’abitino bianco sgualcito, rincantucciandosi quieti vicino al dottore, intento nel raccontare a Lorenzo le sue gesta del quarantotto.

      Lalla per forza aveva dovuto accettare da Ambrogio due dita di vino santo, vecchio di dieci anni e, non essendoci abituata, le ronzava nella testa e nelle orecchie, mentre si sentiva bruciare la faccia e la gola dall’afa, dal caldo che faceva là dentro. Tutte quelle persone le passavano dinanzi confusamente; ma le libere carezze degli sposi, la voluttà acre di Sandra e dell’Ottavia, dovevano per forza colpire anche i sensi della fanciulla.

      E la Nena le sussurrava all’orecchio e la faceva osservare i due gruppi. – Ma che cos’ha, padroncina, sta poco bene?…

      – No… un po’ di caldo!…

      – Ha ragione, qui dentro si soffoca; faremo aprire. Babbo… – e la Nena corse da Ambrogio, il quale, quando seppe che la padroncina aveva caldo, non domandò il permesso a nessuno e spalancò tutte le porte. L’aria pura che invase la stanza fu accolta con un grido di gioia, e le coppie dei ballerini uscirono fuori sparpagliandosi sotto il portico, e lungo i viali, in giardino. Era una sera punto fredda; c’era del resto tanto amore e tanto vino in quella gente, da sentir caldo anche sotto la neve. Soli, nello stanzone, rimasero la Veronica e il cuoco. La fiera sindachessa non lo lasciava più scappare, sperando di renderne geloso il Frascolini, che passeggiava a braccio dell’Ottavia, superba di lui e del fru fru cadenzato del suo strascico sangue di drago. Ma il signor Niso aveva finito lo zucchero, le castagne eran tutte pelate, e, tanto per non stare in ozio, imbacuccato, venne fin sulla porta ad ammirare la moglie.

      – Quel seccatore mi tiene d’occhio – disse l’Ottavia all’amico; – abbi pazienza, vo e torno. E con la maestà che le era particolare, si avvicinò scodinzolando al marito, pregandolo con una carezza di annodarle dietro la vita lo scialle con cui si era coperta. Sandrino intanto, non sapendo che fare, andò in cerca della duchessina, che del resto aveva già profondamente riverita al suo primo apparire. Essa, miracolo, non aveva miss Dill alle costole. L’inglese cominciava a soffrire d’emicrania, a star chiusa, e, per riaversi, passeggiava con don Vincenzo in giardino…

      Lalla, senza udire le parole, aveva indovinata la manovra dell’Ottavia, e perciò si sentì pungere vedendo che il giovinotto la faceva servire da comodino.

      – Bravo, signor Alessandro!… nemmeno un giro di polca!

      – Se mi fossi appena immaginato ch’ella si potesse degnare…

      – Via, via, non dica bugie; per me non c’è tempo!

      – Scherza, lei, scherza… ha sempre voglia di scherzare…

      – Ma, intanto, nemmeno un giro di polca; e questo è un fatto vero.

      – Le ripeto e le giuro, signora duchessina, se io avessi supposto, solamente supposto la sua degnazione, sarei stato tanto felice che…

      – No, no; era felice abbastanza, per non voler esserlo di più.

      Quelle due dita di vin santo non erano ancora svanite dalla testolina di Lalla, e le davano ardire, quantunque, per sua natura, non ne avesse bisogno.

      – Ma non sa, signorina Lalla, che per ballare un giro di polca con lei farei voto, come Tristano di Rocca Bruna – era questi un eroe sentimentale le cui imprese, ridotte in cinque atti, erano destinate a succedere, un giorno o l’altro, nel teatro di Santo Fiore, alle lacrimevoli vicende dei Due Sergenti – farei voto di non ballare mai più, mai più, per tutta la vita?

      Lalla, a questa scappata, rispose ridendo con un riso lungo, fresco,

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