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stato versato il vino di una stessa bottiglia.

      «Queste sono avventure ingegnose, bizzarrie, che starebbero bene in un romanzo, che non sono conformi davvero alla gravità della causa che ci occupa.

      «E, anzi, sono persuaso che la difesa rinunzierà a inoltrarsi in così vani strattagemmi.»

      L’avvocato Arzellini, che guardava fisso l’avvocato fiscale, e non perdeva sillaba di tutto quello che diceva, scosse vivamente il capo, e battendo un pugno sulla tavola, esclamò ad alta voce:

      – Vedremo.... se saranno vani!

      Il presidente fece al focoso patrocinatore un’altra ammonizione.

      «Vani stratagemmi! – riprese l’Avvocato fiscale, in tuono sempre più veemente. – Imperocchè, ammesso questo dramma d’amore, qual parte vi avrebbe avuto l’inquisito? Sarebbe stato egli forse il bel cavaliere, per cui la donna sospirava e si comprometteva, andandolo a visitare nella stanza misteriosa? Sarebbe stato egli, che aspettava una amante e la rifocillava di canditi e di vino di Cipro? Egli, che avrebbe nell’impeto, nell’accecamento della gelosia assassinato il pittore Gandi suo rivale?

      «E come potrà la difesa darci un racconto plausibile del modo con cui il Gandi fu condotto, tratto nell’agguato?....

      «Chi si rivolgerà ad uno stolido, ad un idiota per commettergli sì ardua, sì delicata, sì terribile impresa, e in che modo un idiota la forniva con tanta intelligenza, con tanta audacia, con tanto abominevole precisione?

      «Perchè egli oggi ha così avvedutamente taciuto il nome del suo complice, e lo ha sottratto alle insistenti ricerche della giustizia?

      «È questa la critica che ci permettiamo, secondo la nostra ragione cui non possiamo rinunziare, e la nostra coscienza che non vogliamo tradire.

      «È egli d’uopo ch’io mi soffermi a dimostrare gli esecrabili antecedenti dell’inquisito?

      «E, per citare un estremo della più temeraria ferocia, non basta che noi ripensiamo alla brutale aggressione dell’inquisito contro il nostro esimio collega, il cancelliere Buriatti, durante la preparatoria inquisizione del processo?»

      E l’Avvocato fiscale andava innanzi, abbellendo il suo dire di tutta quelle suppellettile oratoria che era allora in voga.

      Avvocati fiscali, e avvocati difensori citavano versi di Orazio, di Virgilio, di Catullo, a profusione, intere ottave dell’Ariosto e del Tasso, versi del La Fontaine, diluviavano le massime dei pratici e dei dottori; i tropi, le metafore, le similitudini, le allusioni storiche e mitologiche, le parole altisonanti, sesquipedali.

      «Ma io debbo accennare alla stanza misteriosa del Vicolo della Luna, – proseguiva l’avvocato fiscale – alla connessione che essa può avere col barbaro delitto, da cui fu la notte del 14 gennaio contaminata quella già località così sinistra.

      «Ascoltatemi con attenzione.

      «La stanza N. 5 serviva di certo ai convegni di qualche strano e capriccioso amatore; ma ogni retta induzione ci porta ad escludere qualsiasi relazione fra coloro che vi s’incontravano e il delitto che dette origine a questo processo.

      «Il Fisco appose i suggelli alla porta, e vi sono tuttora, e sebbene la stanza sia piuttosto sfarzosamente arredata, nessuno si è presentato fino ad oggi a ripetere la proprietà degli oggetti che essa contiene.

      «Ci è ignoto dunque chi fossero le persone che vi convivevano. Chi l’aveva presa in affitto si è circondato di tali precauzioni che non è stato possibile chiarirne la identità!

      «Ad ogni modo si tratta di una galante avventura, che non è davvero interesse della giustizia l’approfondire nella presente causa.

      «Per noi è certo che l’inquisito meditava da vario tempo il suo latrocinio. Per noi è certo che egli si è appostato alcune ore, aspettando una preda.»

      Dopo una lunga perorazione, nella quale ricapitolò tutte le resultanze del processo, l’avvocato fiscale fece intendere che egli avrebbe preso le sue conclusioni.

      IV

      Aveva parlato da circa tre ore, e il pubblico lo aveva sempre ascoltato con l’attenzione più concentrata.

      Nella perorazione scongiurò i giudici a non lasciarsi vincere da alcuna perplessità per le incoerenze dimostrate dall’inquisito nel suo interrogatorio, pel suo rifiuto a rispondere, per gli schiamazzi con cui non aveva esitato ad offendere la stessa Rota.

      Tali simulazioni non erano nuove, altri rei se n’erano valsi come espediente a sviare la meritata severità della Legge.

      L’Avvocato fiscale terminò dicendo, che egli domandava per l’inquisito la stessa condanna da lui già domandata nelle sue conclusioni, che si trovavano fra gli atti del processo scritto.

      «Concludo dunque – queste furono le ultime parole dell’oratore fiscale – che la Regia Rota condanni l’inquisito Nello Bartelloni nella pena di servizio ai pubblici lavori per anni venti, previa un’ora di esposizione, a indennizzare la parte lesa, e nelle spese della procedura.»

      Previa un’ora di esposizione!

      I mercatìni quasi non si tenevano più. Il loro desiderio era sodisfatto! Nello sarebbe messo alla gogna; lo avrebbero riveduto: avrebbero ricavato da lui i numeri del Lotto. Insomma si preparava ad essi in quel triste avvenimento una eccellente occasione di darsi bel tempo, di andar attorno con le spose, coi figliuoli, e far gazzarra.

      Ma il pubblico, agitato, commosso, non ebbe tempo di lasciarsi sfuggire la più piccola espressione di sodisfazione o di meraviglia, poichè già si era alzato il celebre avvocato Arzellini.

      Eravamo, dunque, al punto di quella lotta da atleti fra i due ragguardevoli oratori, che già abbiamo annunziato al lettore, e alla quale il pubblico ardeva di assistere.

      L’avvocato Arzellini era quasi circondato da giovani avvocati, che, non avendo potuto trovare posto nelle sedie, gli si erano avvicinati, e, in piedi, gli stavano dappresso con la reverenza, l’affettuoso raccoglimento di discepoli, che non volevano perdere una sola parola del maestro venerato.

      Tutti i cuori battevano, tutte le orecchie erano tese.

      Gli stessi giudici si erano rivolti verso il difensore, e mostravano di esser disposti ad ascoltarlo con la maggior deferenza.

      Lucertolo si era messo quasi accanto all’avvocato.

      L’orazione non doveva avere ascoltatore più attento e più appassionato di lui.

      – «Se grave e dolorosa causa – cominciò l’avvocato Arzellini – fu mai al mio patrocinio commessa, come non dirò io esser tale quella che quasi tremando mi accingo a discutere?… Nè le tristezze di questa causa, sebbene di fatti e varia e complicatissima sia, nascono dagl’intrinseci, che la presentano come problema giuridico da risolversi. Esse nascon piuttosto dagli sventurati estrinseci, che la circondano.

      «Grave la fa l’inaudito e quasi inesplicabile coraggio di chi ispirò gli aliti primi dell’accusa… formando nella contradizione evidente di ogni diretto, o indiretto mezzo di prova un’ipotesi, la quale obietta un delitto della più incallita umana ferocia a giovane di tenera età, quasi demente, e peregrino nel cammin della vita.

      «Grave la fanno il terrore e la perplessità in cui l’accusa ha gettato i nostri animi.

      «Fa grave questa causa l’incontro fatale di circostanze, le quali, sebben nate dalla sciagura, o dalla imprudenza, assumono aspetto fallace di delittuose apparenze ad eccitare lo straordinario zelo, con cui l’encomiabile Uffizio fiscale sostiene l’accusa con tutte le forze dell’ingegno e dell’eloquenza.

      «Grave fa pesar questa causa nell’afflitto mio cuore il dovere di un padre, che corre alla difesa del proprio figlio. Non mi fè certo la natura padre dell’inquisito: ma tal mi fece la Legge collocando tra le mie braccia questo sventurato innocente, questo tapino, solo nel mondo, senza guida, e senza alcun’altra tenerezza, affinchè io lo difenda e lo protegga. Di rado sentii più, ottimi giudici, quanto fosse sacro il mio ufficio.

      «E qui un lamento mi sia permesso se non utile alla causa, e agli

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