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fatale conseguenza che, appena avvenuta la trasmissione della speciale inquisizione, essa nuoceva grandemente alla fama e al benessere del cittadino. Egli veniva generosamente ritenuto per delinquente, veniva sospeso da ogni pubblica carica; veniva cassato dai ruoli delle milizie se militare; veniva privato del consorzio degli onesti cittadini; e difficilmente si lavava la macchia dell’inquisizione, nonostante che con la difesa avesse provato la sua innocenza, non ostante che la sentenza la proclamasse.»

      Il lettore attento faccia su questi rapidi cenni le sue meditazioni, chè gli gioveranno.

      Noi torniamo alla Camera di Consiglio ove erano riuniti i sei auditori.

      Il presidente sedeva ad una gran tavola, che era quasi nel mezzo della stanza. Accanto al presidente, quasi incollata alla sua poltrona, era la sedia su cui appoggiava il gramo dorso l’auditorino Lechini.

      Dirimpetto al presidente, torbido, minaccioso, rannuvolato, con un cipiglio da augurarne ogni sinistro, sedeva il Relatore della causa, auditore Pantellini.

      L’auditore Biscotti era a destra del Relatore.

      Questo Giudice era un fanatico studioso dei Testi di lingua: spesso costringeva i suoi colleghi a sospendere la compilazione di una sentenza per i motivi che diremo.

      Si trattava, poniamo, di mandare un disgraziato per quindici, venti anni, per tutta la vita, in galera.

      L’estensore della sentenza, rigido, raccolto, dettava il racconto delle circostanze, che avevano potuto servire ad aggravare, o render migliori le condizioni dell’inquisito.

      Si scrivevano allora lunghe, interminabili sentenze, i cui attesochè si prolungavano per quaranta e cinquanta pagine.

      D’un tratto si udivano un grido, un’escandescenza, il rumore di una sedia, che si moveva. L’auditore Biscotti si alzava, tutto irritato, rosso in volto, solenne.

      – Che cosa c’è, signor auditore! – domandava il presidente.

      – Se io debbo firmare la sentenza non ammetto che si metta il participio concernente con il dativo…

      – Signor auditore!…

      – Non son disposto a transigere, signor presidente. La proprietà dei vocaboli è cosa sempre necessaria, necessarissima in una sentenza. Abbiamo l’obbligo di mostrar prima di tutto che sappiamo far giustizia alle parole, esser giusti nella espressione. Bisogna dire «concernente il delitto:» «concernente al delitto» è un solecismo. So bene che il poeta mugellese ha scritto nel suo Torracchione:

      Fè quel tanto ordinare e porre in punto,

      Che ad opra così pia fu concernente.

      Però l’esempio è del seicento: c’è anche un altro esempio nel Segneri, ma questi autori bisogna citarli con cautela…

      – Andiamo!… Basta!… Sempre tali questioni! – ripetevano gli auditori in coro.

      Però erano sempre costretti a modificare la frase.

      L’auditore Biscotti non si impauriva.

      Alla prima occasione, egli tornava ad interrompere, ad esigere il cambiamento dell’espressione difettuosa.

      Se il presidente talvolta gli rispondeva con una certa severità, e dichiarava assolutamente con la sua autorità che una parola era propria, che la discussione doveva troncarsi, il giorno dopo l’auditore arrivava in Camera di Consiglio col suo bravo volume del Vocabolario della Crusca, con un’osservazione di Basilio Puoti, con la Grammatica del Corticelli.

      Bisognava, o dargli la sua parola, o… la vita!

      A sinistra dell’auditore Pantellini, relatore, sedeva l’auditore Comettini, che tutte le sere andava a giuocare a calabresella, o a picchetto, col vicario dell’arcivescovo, e in Camera di Consiglio meditava, preparava i suoi più bei colpi.

      Il sesto auditore, Dario Salti, vedovo, aveva per casa una grossa, ossuta fantesca, che lo dominava, lo raggirava, gl’incuteva un inesplicabile terrore, co’ suoi modi pazzeschi e indiavolati.

      L’arcigna creatura aveva un odio furibondo contro i libri. Non voleva che l’auditore ne comprasse, nè gli aveva mai permesso di metter su, in casa, uno scaffale.

      L’auditore, per studiare, per consultare un volume, andava qua e là, or con un pretesto, or con l’altro, nelle case de’ suoi colleghi.

      Le stanze della Rota erano per lui il Paradiso. Non avrebbe mai voluto uscire dalla Camera di Consiglio: vi si trovava più contento che in casa sua.

      Quando una sessione, una discussione era finita, mentre i suoi colleghi si alzavano in fretta, e apparivano sodisfatti di andarsene, egli diventava cupo, attristato; l’idea di dover tornare a casa, delle accoglienze, che gli avrebbe fatto la rozza e irosa Megera, il suo carnefice in gonnella di rigatino, lo atterriva.

      Era lungo lungo, secco, calvo, con un naso sperticato, di larghe narici. Aveva circa sessant’anni.

      Il presidente quella mattina, appena entrato, fece con gli auditori la sua solita conversazione.

      – Avevano letto la poesia a Santa Cecilia del canonico Trenti?… Un nuovo Metastasio!… Si preparava alla Pergola un bello spettacolo… Era arrivata a Firenze Miss Zigstown… È dovuta venir via da Londra, dicono, perchè una sera un grande personaggio della Corte è stato sorpreso nel corridoio, che metteva alla cappella del palazzo dove la Miss, che è cattolica, si trovava… a pregare. Un altro magistrato, mio amico, mi scrive da Lucca che la marchesa Flabelli è fuggita col tenore Ottavini…

      – Sempre bene informato il nostro presidente! – diceva in atto estatico l’auditore Lechini.

      – Ora dunque passiamo agli affari! – osservò il presidente, interrompendo ad un certo punto la conversazione.

      Era tornato molto serio. Si preparava a ribattere con la sua coscienza, con la finezza e il vigore del suo ragionamento le obiezioni, che prevedeva gli sarebbero mosse dall’auditore Pantellini. La lotta doveva essere combattuta fra que’ due magistrati, d’indole così diversa, sempre avversarii, l’uno, il Pantellini, geloso e rabbiosamente invidioso dell’altro, ma tutti e due le migliori teste, che avesse quel Turno della Rota. Secondo che l’uno o l’altro prevalesse nella discussione, era certo avrebbe avuto con sè il maggior numero de’ colleghi, salvo il Lechini, che dava sempre il suo voto conforme a quello del presidente, l’auditore Comettini, che votava sempre con l’auditore Pantellini suo pigionale.

      L’auditore Pantellini fece un gesto brusco, come se avesse voluto dire: – Era tempo!

      – Come sanno, – ripigliava il presidente, – dobbiamo occuparci della causa pel latrocinio commesso nel Vicolo della Luna. La Rota deve giudicare dei punti seguenti:

      «È provato, in genere, il fatto che il signor Roberto Gandi pittore, come risulta dal libello fiscale, fosse proditoriamente assalito la sera del 14 gennaio nel Vicolo della Luna, che fosse ferito, e in conseguenza della ferita riportata alla testa, sia da varii mesi obbligato a guardare il letto…

      – Costrutto francese! costrutto francese! – brontolò l’auditore Biscotti.

      – A stare a letto, dunque, signor auditore, si calmi!… È provato che la ferita abbia messo in grave pericolo la vita del signor Gandi?

      «È provato, in specie, che colui che produsse la ferita fu l’inquisito Nello Bartelloni?

      «È provato che lo facesse a scopo di furto e con premeditazione?

      «È provato che l’inquisito fosse in stato mentale, come ha dedotto la difesa, tale da escludere, o diminuire la sua imputabilità?»

      – Ah se mi fosse toccato ieri sera l’asso di cuori! – pensava tra sè l’auditore Cometti!

      – Questa causa è grave, molto grave, secondo me – riprese il presidente – Non so quali sieno i pareri degli egregî auditori, ma quanto a me dichiaro che il libello fiscale non mi ha lasciato molto persuaso.

      – Come? Come? – domandò subito esasperato l’auditore Pantellini – lei può dubitare della reità dell’inquisito?

      – Sì,

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