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porta entrava nel medesimo istante l’avvocato Arzellini.

      Prima di sedersi al banco della difesa, si tolse di capo il berretto nero, e s’inchinò rispettoso al Presidente e all’Avvocato Fiscale.

      II

      La sala nella quale teneva le udienze la Rota Criminale fiorentina, al pianterreno, nel palazzo detto del Bargello, riceveva luce da finestre che davano sul cortile: era piuttosto oscura.

      Vi si accedeva dalla porta, che è oggi quasi sulla cantonata di Via del Proconsolo e della piazza San Firenze. Allora quel tratto di via del Proconsolo si chiamava Via de’ Librai: la porta era più bassa, adorna di fregi e di un gran cornicione, e in alto, posati su due aggetti, erano due leoni.

      Sulla testa di questi leoni, in certi giorni solenni, si metteva una corona in ferro dorato.

      Una scaletta segreta metteva in comunicazione gli ufficii della Cancelleria con la stanza del Soprastante alle carceri della Rota e per questa scaletta scendevano i prigionieri, condotti alle udienze, e passavano spesso anche i Cancellieri, recandosi a visitare i detenuti.

      Un trabocchetto che, movendo da una gran sala del palazzo rasentava gli uffici della Rota Criminale e andava a finire nei sotterranei, dette in antichissimi tempi origine alle più cupe leggende.

      La disposizione e l’ornamento della sala d’udienza poco differivano dal modo oggi per tal rispetto praticato.

      I sei auditori sedevano dietro a un lungo banco coperto da un tappeto verde; a destra dei giudici sedeva l’Avvocato Fiscale, a sinistra il Cancelliere.

      Dinanzi al banco dei giudici, più in basso, era il banco al quale sedevano gli avvocati, e dietro una lunga fila di sedie sulle quali prendevano posto gli attuarii, giovani, cioè, che nella Cancelleria facevano pratiche per abilitarsi alla magistratura, e altri giovani, che studiavano per diventare avvocati.

      Un cancello di legno, alto quasi fino al collo di un uomo di ordinaria statura, spartiva la sala delle udienze dal posto riservato al pubblico.

      La curiosità destata dal processo di Nello era acutissima.

      Tutti volevano vedere il presunto assassino.

      Un’ora prima che l’udienza cominciasse, la gente era entrata nella sala.

      Alcuni venditori del Mercato avevano persino chiuso le botteghe per assistere all’interrogatorio di Nello, che doveva esser fatto dopo la lettura della relazione.

      Uomini e donne erano lì pigiati e si alzavano in punta di piedi, e quelli rimasti indietro cercavano spingersi innanzi a furia di gomiti e d’imprecazioni. I due birri, che stavano di guardia alla porta della sala, ogni tanto facevano cenni con le mani, prima che cominciasse l’udienza, e il silenzio a un tratto si ristabiliva.

      Poco dopo le vociferazioni, le esclamazioni d’impazienza ripigliavano, e i birri, chiamandoli per nome, minacciavano di far uscire i più rumorosi.

      Due consiglieri di Stato, alcuni magistrati della Consulta, un segretario del ministro inglese, alcuni ragguardevoli personaggi dell’aristocrazia erano seduti nel posto riservato agli attuarii, e ai giovani avvocati.

      Ogni tanto essi si volgevano indietro, come disgustati per gli acri odori che emanavano dalla folla dei mercatìni.

      Nello aveva fatto atto di buttarsi a sedere, ma Lucertolo, afferratolo per un braccio, glielo aveva impedito.

      – Devi stare alzato! – gli mormorò, digrignando i denti, – finchè il presidente non ti dica di sederti.

      L’auditore Pantellini era occupato a mettere in ordine le pagine della sua relazione.

      Il presidente richiese il cancelliere di adempiere alle solite formalità, e quindi, rivoltosi all’auditore Pantellini che gli sedeva a destra:

      – Signor auditore! – gli disse a bassa voce, – può leggere la sua relazione!

      Il pubblico s’impazientiva di non veder Nello.

      Lucertolo, Zampa di Ferro, il Matto, Vendifumo, il birro più agghindato e più elegante della città, ritti e vigilanti attorno all’inquisito, ne toglievano la vista agli astanti.

      L’auditore Pantellini cominciò a leggere con voce dura, e ogni tanto accompagnava la lettura con un gesto minaccioso e vibrato.

      Il delitto del Vicolo della Luna era esaminato in tutti i suoi particolari.

      L’auditore parlava della stanza misteriosa, della constatazione della ferita, dei precedenti di Nello.

      Spesso il nome di un mercatìno, citato come testimone, pronunziato dal giudice in mezzo alla sua relazione, faceva scorrere un brivido, un sommesso mormorìo nella folla accalcata di là dal cancello.

      La relazione, che leggeva l’auditore Pantellini, era imparziale, ma da essa la colpabilità di Nello risultava chiara, quasi indiscutibile.

      I deposti di alcuni testimoni erano molto gravi: tutti i più piccoli precedenti del povero ragazzo presentati nel modo più odioso.

      Esclamazioni di orrore si udirono nella sala, quando il giudice cominciò a parlare delle condizioni in cui era stato trovato il corpo del ferito in mezzo a una gora di sangue nella Piazza della Luna.

      La sala, sempre scarsa di luce, appariva anche più buia per la giornata piovigginosa. Il giudice leggeva con accento quasi lugubre.

      Le sue descrizioni brevi, evidenti, aumentavano l’atrocità della scena, che ricordava.

      Quando egli cominciò a dire della ferita, per la quale l’assassinato aveva perduto il dono della parola, quando accennò ai lunghi mesi di acute sofferenze sopportate dal paziente, quando annunziò che, sebbene fosse stato necessario di fargli cambiar clima, e trasportarlo con ogni precauzione, come un moribondo, pure si avevano di lui notizie che tuttora inducevano a sperar poco della sua vita, quando accennò che la ferita era stata resa più larga e più dolorosa dal modo violento, brutale con cui l’assassino n’aveva tratto fuori il pugnale, da diecine di petti si alzò un grido di esecrazione!

      Negli atti del processo non si trovava un solo argomento in favore di Nello, non ostante la buona volontà dell’auditore Nolmi, che lo aveva preparato: invece si accumulavano contro di lui le risultanze più compromettenti.

      Come sa il lettore, l’auditore Francesco Nolmi aveva raccolto la convinzione morale che Nello non fosse colpevole, o per lo meno che la sua colpabilità fosse dubbia; ma il suo era sentimento, basato sopra osservazioni da filosofo, e sopra induzioni di una mente delicata, fondato su ingegnose, sottili ipotesi piuttosto che su fatti certi e positivi. Ora agli animi volgari doveva naturalmente sfuggire ciò che aveva colpito il magistrato, uomo dottissimo, e di grande intelletto. Non era già sfuggito anche a’ suoi colleghi? E nel Turno di Revisione non era stato deciso di rinviare il processo alla Rota con due voti contro il suo?

      La relazione volgeva al termine.

      Lucertolo era tra coloro che l’ascoltavano più ansiosamente.

      Di tanto in tanto, durante la lettura, egli faceva col capo un lieve cenno, appena percettibile, come se rispondesse a qualche suo interno ragionamento.

      Il birro attento, trepidante, aveva aspettato di scorgere da un momento all’altro nell’arida relazione uno di quei tratti, che nella loro evidenza e semplicità bastano ad illuminare tutto un processo, che recano un raggio di verità nelle tenebre più intricate di un’istruttoria mal riuscita, che dimostrano ai veri intelligenti come il giudice abbia a traverso il fitto velo, che ingannevoli apparenze gli mettevano innanzi, veduta la strada da battersi e dalla quale i suoi colleghi, che l’hanno preceduto nelle ricerche, si sono allontanati.

      Ma nulla di ciò traspariva da quella relazione.

      Il giudice, severo, implacabile, seguiva le traccie del processo inquisitorio: non si alzava di una spanna dal terreno, che già aveva trovato battuto.

      Spesso a certi punti della relazione, Lucertolo e Zampa di Ferro scambiavano sguardi significativi.

      Allorchè il giudice arrivò al punto in cui sosteneva apertamente che Nello doveva aver commesso il delitto da sè solo, senza il menomo aiuto

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