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lieto d’essere stato accolto così bene, porse la mano, mentre la vecchia, non essendosi attesa tanta degnazione, diede la propria con un po’ di ritardo; non aveva capito che cosa egli volesse e quegli occhi inquieti di volpe l’avevano fissato per un istante con un’immediata, evidente diffidenza. La ragazzina, dopo la madre, gli porse anch’essa la mano tenendo la sinistra sempre al petto. Ottenuto quell’onore disse con calma: – Grazie.

      – S’accomodi qui – disse Angiolina; corse ad una porta in fondo al corridoio e la aperse. Beato, il Brentani si trovò solo con Angiolina; perché la vecchia e la ragazzina, fatto un ultimo complimento, erano rimaste fuori della porta. E, chiusa quella porta, egli dimenticò tutti i suoi propositi d’osservatore. L’attirò a sé.

      – No – pregò essa – qui accanto dorme mio padre ch’è indisposto.

      – So baciare senza far rumore, – dichiarò lui e le premette lungamente le labbra sulla bocca mentre essa continuava a protestare, ne risultò così un bacio frazionato in mille, adagiato in un alito tiepido.

      Stanca, ella si svincolò e corse ad aprire la porta. – Ora s’accomodi qui e sia saggio perché dalla cucina ci vedono. – Sempre ancora rideva ed egli, poi, la rammentò spesso così lieta d’avergli giuocato quel tiro da bambina maliziosa che fa dispetti a chi la ama. Sulle tempie i capelli le erano stati arruffati dal suo braccio, ch’egli, come sempre, aveva posto intorno alla bionda testa; con l’occhio egli accarezzò le tracce della propria carezza.

      Appena più tardi vide la stanza in cui si trovavano. La tappezzeria non era troppo nuova, ma i mobili, date quelle scale, quel corridoio e i vestiti della madre e della sorella, sorprendentemente ricchi, tutti dello stesso legno, noce, il letto coperto di un drappo con larga frangia, in un canto un vaso enorme con alti fiori artificiali e di sopra, sulla parete, aggruppate con grande accuratezza, molte fotografie. Del lusso insomma.

      Egli guardò le fotografie. Un vecchio che s’era fatto fotografare in posa di grand’uomo, appoggiato a un fascio di carte. Emilio sorrise. – Il mio santolo – presentò Angiolina. Un giovanotto vestito bene ma come un operaio in festa, una faccia energica, uno sguardo ardito. – Il santolo di mia sorella, – disse Angiolina, – e questo è il santolo del più giovane dei miei fratelli, – e fece vedere il ritratto di un altro giovanotto più mite e più fine dell’altro.

      – Ce ne sono degli altri? – domandò Emilio, ma lo scherzo gli morì sulle labbra perché tra le fotografie ne aveva scoperte due unite, di uomini ch’egli conosceva: Leardi e Sorniani! Il Sorniani, giallo anche in fotografia, lo sguardo torvo , pareva continuasse anche di là a dir male d’Angiolina. La fotografia del Leardi era la più bella: la macchina aveva fatto questa volta il proprio dovere riproducendo tutte le gradazioni del chiaroscuro, e il bel Leardi pareva ritratto a colori. Stava là, disinvolto, non appoggiato a tavoli, libere le mani inguantate, proprio in atto di presentarsi in un salotto ove forse lo attendeva una donna sola. Guardava Emilio con una cert’aria di protezione, naturale alla sua bella faccia d’adolescente, ed Emilio dovette torcere lo sguardo, pieno di rancore e d’invidia.

      Angiolina non comprese subito perché la fronte di Emilio si fosse tanto oscurata. Per la prima volta, brutalmente, egli tradì la sua gelosia: – Non mi piace mica di trovare tanti uomini in questa stanza da letto. – Poi, vedendo ch’ella si sentiva tanto innocente da essere stupefatta del rimprovero, addolcì la frase: – E quello che io ti diceva sere or sono; non è bello di vederti circondata da cotesti figuri e può danneggiarti. Già il fatto che li conosci è compromettente.

      Improvvisamente ella ebbe dipinta sulla faccia una grande ilarità, e dichiarò ch’era ben lieta di vederlo geloso. – Geloso di questa gente! – disse poi rifacendosi seria e con aria di rimprovero, – ma quale stima hai dunque di me? – Ma quando egli stava già per chetarsi, ella commise un errore. – A te, vedi, darò non una ma due delle mie fotografie – e corse all’armadio a prenderle. Dunque tutti gli altri possedevano una fotografia di Angiolina; ella glielo aveva raccontato, però con un’ingenuità tale che egli non osò di fargliene un rimprovero. Ma venne ancora di peggio.

      Costringendosi ad un sorriso, egli guardava le due fotografie ch’ella gli aveva consegnate con un inchino scherzoso. Una, in profilo, era fatta da uno dei migliori fotografi della città; l’altra era un’istantanea bellissima ma più per il vestito elegante, trinato, ch’ella aveva portato la prima volta in cui egli le aveva parlato, che per la faccia sfigurata dallo sforzo di tener aperti gli occhi ai raggi del sole. – Chi ha fatto questa poi? – domandò Emilio. – Il Leardi forse? – Egli ricordava d’aver visto il Leardi sulla via, con una macchina fotografica sotto il braccio.

      – Ma no! – disse essa. – Geloso! Me l’ha fatta un uomo serio, sposato: il pittore Datti.

      Sposato sì, ma serio? – Non geloso, – disse il Brentani, con voce profonda, – triste, molto triste. – Ed ora vide fra le fotografie anche quella del Datti, il grande barbone rosso, ritratto con predilezione da tutti i pittori della città e, vedendolo, Emilio ebbe un dolore acuto al ricordare una sua frase «Le donne con cui ho a fare, non sono degne di costituire un torto a mia moglie ».

      Egli non aveva più bisogno di cercare dei documenti, gli cascavano addosso, l’opprimevano, ed Angiolina, maldestra faceva del suo meglio per illustrarli, metterli in rilievo. Umiliata e offesa, mormorò: – Merighi m’ha fatto conoscere tutta questa gente. – Ella mentiva perché non era credibile che il Merighi, un commerciante laborioso, avesse conosciuto quei giovinastri e quegli artisti o, pur conoscendoli, fosse andato a sceglierli per presentarli alla sua sposa

      Egli la guardò a lungo con uno sguardo inquisitore come se fosse stata la prima volta che la vedesse ed ella comprese la serietà di quell’occhiata; un po’ pallida guardava in terra e attendeva. Ma subito il Brentani ricordò quanto poco egli avesse il diritto di essere geloso. – No! né umiliarla né farla soffrire mai! – Dolcemente, per dimostrarle ch’egli l’amava ancora sempre, – egli sentiva che le aveva già manifestato un sentimento molto differente, – volle baciarla.

      Subito ella apparve rabbonita ma s’allontanò e lo scongiurò non la baciasse più. Egli si sorprese ch’ella rifiutasse un bacio tanto significante e finì coll’adirarsene più che per quanto era successo prima. – Ho già tanti peccati sulla coscienza – disse ella seria, seria, – che oggi mi sarà ben difficile di ottenere l’assoluzione. Per colpa tua mi presento al confessore con l’animo mal preparato.

      In Emilio rinacque la speranza. Oh, la dolce cosa ch’era la religione. Di casa sua e dal cuore d’Amalia egli l’aveva scacciata, – era stata l’opera più importante della sua vita, – ma ritrovandola presso Angiolina, la salutò con gioia ineffabile. Accanto alla religione delle donne oneste, gli uomini sul muro parvero meno aggressivi e, andandosene, egli baciò con rispetto la mano ad Angiolina che accettò l’omaggio come un tributo alla sua virtù. Tutti i documenti raccolti erano inceneriti alla fiamma di un cero sacro.

      Perciò, l’unica conseguenza della sua visita fu che egli aveva trovata la via a quella casa. Prese l’abitudine di portarle la mattina i dolci pel caffè. Era una gran bell’ora anche quella. Si stringeva al seno il magnifico corpo uscito allora dal letto, e ne sentiva il tepore, che passava il leggero vestito da mattina e gli dava il sentimento di un contatto immediato con la nudità. L’incanto della religione era presto svanito perché quella di Angiolina non era tale da proteggere o difendere chi non fosse difeso altrimenti, ma pure ad Emilio i sospetti non vennero mai così fieri come la prima volta. In quella stanza egli non aveva il tempo di guardarsi d’intorno.

      Angiolina tentò di simulare quella religione che le aveva giovato tanto una volta, ma non le riuscì e presto ne rise spudoratamente. Quando ne aveva assai dei suoi baci, lo respingeva dicendogli: Ite missa est, insudiciando un’idea mistica ch’Emilio serio, serio, aveva espressa più volte al momento di separarsi. Domandava un Deo gratias quando chiedeva un piccolo favore, gridava mea maxima culpa quando egli diventava troppo esigente, libera nos Domine quando non voleva sentir parlare di qualche cosa.

      Eppure egli aveva una soddisfazione completa dal possesso incompleto di quella donna, e tentò di procedere oltre solo per diffidenza, per timore di venir deriso da tutti quegli uomini che lo guardavano.

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