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il suo eterno movimento, baloccandosi con l’argento alla sua superficie, il colore taceva, dormiva. Il verde dei colli, i colori tutti delle case rimanevano abbrunati e la luce di fuori, inaccolta, distinta, un effluvio che saturava l’aria, era bianca, incorruttibile, perché nulla in lei si fondeva.

      Nella vicina faccia della fanciulla, la luce lunare s’incarnava, sostituiva quel colore di bambino roseo senz’attenuare il giallo diffuso ch’Emilio credeva di percepire con le labbra; tutta la faccia diveniva austera e, baciandola, Emilio si sentiva più corruttore che mai. Baciava la bianca, casta luce.

      Poi preferirono i boschetti del colle al Cacciatore; sentivano sempre più il bisogno di segregarsi. Sedevano accanto a qualche albero e mangiavano, bevevano e si baciavano. I fiori erano presto scomparsi dalla loro relazione, e avevano ceduto il posto ai dolci che poi ella non volle più per non guastarsi i denti. Subentrarono i formaggi, le mortadelIe, le bottiglie di vino e di liquori, roba già molto costosa per la scarsa borsa d’Emilio.

      Ma egli era dispostissimo a sacrificare ad Angiolina tutte le poche economie fatte nei lunghi anni della sua vita regolata; si sarebbe ristretto nelle spese non appena esaurita la sua piccola riserva. Altri pensieri lo preoccupavano di più: chi aveva insegnato ad Angiolina a baciare? Egli non rammentava più i primi baci ricevuti; allora, tutto occupato del bacio che dava, non aveva sentito, in quello che riceveva, altro che un dolce necessario complemento al suo, ma gli pareva che se quella bocca fosse stata tanto animata, egli ne avrebbe provata qualche sorpresa. Le aveva dunque insegnata lui quell’arte in cui egli stesso era novellino?

      Ella confessò! Il Merighi l’aveva baciata molto. Rise parlandone. Certo, Emilio le appariva buffo quando mostrava di credere che il Merighi non avesse approfittato della sua posizione di fidanzato almeno per baciarla a sazietà.

      Il Brentani non sentiva alcuna gelosia per il ricordo del Merighi che aveva avuto tanti diritti più di lui. Gli doleva anzi ch’ella ne parlasse leggermente. Non avrebbe dovuto piangere ogni qualvolta lo nominava? Quando egli manifestava il proprio rammarico di non vederla più infelice, ella, per secondarlo, atteggiava la bella faccia a tristezza e, per difendersi dal rimprovero che sentiva esserle fatto, ricordava ch’ella s’era ammalata per l’abbandono del Merighi: – Oh! se fossi morta allora, certo non mi sarebbe dispiaciuto. – Pochi istanti dopo, ella rideva rumorosamente fra le braccia di lui che s’erano aperte per consolarla.

      Ella nulla rimpiangeva ed egli se ne sorprendeva altrettanto quanto della propria dolorosa compassione. Come le voleva bene! Era veramente sola gratitudine per quella dolce creatura che si comportava come se proprio per lui fosse stata creata, amante compiacente senz’esigenze?

      Quando la sera sul tardi tornava a casa e la pallida sorella lasciava il lavoro per fargli compagnia a cena, egli ancora vibrante di commozione, non soltanto non sapeva parlare d’altre cose ma neppure gli riusciva di fingere un interessamento per le piccole faccende di casa che formavano la vita d’Amalia e delle quali ella soleva parlargli. Finiva ch’ella accanto a lui riprendeva il lavoro e restavano nella stessa stanza ognuno solo coi propri pensieri.

      Una sera ella lo guardò a lungo senza ch’egli se ne avvedesse; poi, sorridendo con isforzo, gli chiese: – Sei stato finora con lei?

      – Chi lei? – chiese egli subito ridendo. Poi si confessò perché aveva bisogno di parlare. Oh, era stata una serata indimenticabile. Aveva amato nella luce lunare, nell’aria tiepida, dinanzi a un paesaggio sconfinato, sorridente, creato per essi, per il loro amore. Ma egli non sapeva spiegarsi. Come poteva dare un’idea di quella serata alla sorella non parlandole dei baci d’Angiolina?

      Ma mentre egli ripeteva: – Quale luce, quale aria! – ella indovinava sulle sue labbra le traccie dei baci ai quali egli pensava. Odiava quella donna che non conosceva e che le aveva rubata la sua compagnia e il suo conforto. Ora ch’ella lo vedeva amare come tutti gli altri, le mancava l’unico esempio di volontaria rassegnazione allo stesso proprio triste destino. Tanto triste! Si mise a piangere, da prima con delle lagrime silenziose che cercava di celare sul lavoro, poi, quando egli di quelle lagrime s’accorse, con singhiozzi impetuosi che invano tentò di reprimere.

      Cercò di spiegare quelle lagrime: era stata indisposta tutto il giorno, non aveva dormito la notte precedente, non aveva mangiato, si sentiva molto debole.

      Egli senz’altro le credette: – Domani se tu non stessi meglio, chiameremo il dottore.

      Allora al dolore d’Amalia s’aggiunse l’ira che egli così leggermente si lasciasse ingannare sulla causa delle sue lagrime; quella era la prova della più completa indifferenza. Non ebbe più ritegno, e gli disse che lasciasse stare il dottore perché per quella vita ch’ella faceva non valeva la pena di curarsi. Per chi viveva e perché? Visto ch’egli non voleva ancora comprendere e la guardava estatico, ella disse tutto il proprio dolore: – Neppur tu hai più bisogno di me.

      Egli, certo, non capì, perché invece di commuoversi s’adirò: egli aveva passata la sua gioventù solitario e triste; era troppo giusto che di tempo in tempo s’accordasse qualche svago. Angiolina non aveva importanza nella sua vita: era un’avventura che sarebbe durata qualche mese e non più. – Sei veramente cattiva di farmene un rimprovero. – Si commosse soltanto nel vederla continuare a piangere, senza parole, in un’inerzia sconsolata. Per confortarla le promise che sarebbe venuto più spesso a tenerle compagnia; avrebbero letto e studiato insieme come in passato, ma ella doveva procurare d’essere più allegra perché egli non amava le persone tristi. Il suo pensiero volò ad Ange! Come sapeva ridere a lungo, lei, con risate prolungate e contagiose, e sorrise egli stesso pensando che quelle risate avrebbero echeggiato in modo ben strano nella sua triste casa.

      III

      Una sera egli doveva trovarsi con lei alle venti precise, ma mezz’ora prima, il Balli mandò ad avvisarlo che lo attendeva al Chiozza, giusto a quell’ora, per fargli delle comunicazioni importantissime. Egli s’era già schermito da altri simili inviti che avevano soltanto lo scopo di strapparlo qualche volta ad Angiolina, ma quel giorno colse il pretesto di rimandare l’appuntamento per penetrare nella casa della fanciulla. Avrebbe studiata quella persona già tanto importante nella sua vita, nelle cose e nelle persone che l’attorniavano. Già cieco, egli conservava tuttavia il contegno delle persone che vedono bene.

      La casa d’Angiolina era situata a pochi metri fuori della via Fabio Severo. Grande e alta, in mezzo alla campagna, aveva tutto l’aspetto di una caserma. La portineria era chiusa ed Emilio, invero con un po’ d’esitazione non sapendo come sarebbe stato accolto, salì al secondo piano. – Non è certo l’aspetto della ricchezza, – mormorò per registrare i suoi rilievi a viva voce. La scala doveva essere stata fatta molto in fretta, le pietre mal squadrate, la ringhiera di ferro grezzo, i muri bianchi di calce, niente di sudicio ma tutto povero.

      Venne ad aprirgli una ragazzina, decenne forse, con un ragnatelo di vestito goffo e lungo, bionda come Angiolina, ma gli occhi smorti, la faccia giallastra, anemica. Non parve per nulla sorpresa al vedere un volto nuovo; soltanto sollevò e fermò con la mano al petto i lembi del giacchettino privo di bottoni. – Buon giorno! Ella desidera? – Aveva una cortesia cerimoniosa fuori di posto nella personcina puerile.

      – C’è la signorina Angiolina?

      – Angiolina! – chiamò una donna che nel frattempo s’era avanzata dal fondo del corridoio. – Un signore domanda di te. – Quella probabilmente era la dolce madre cui Angiolina aveva anelato di ritornare allorché era stata abbandonata dal Merighi. La vecchia vestiva da serva, in colori vivaci per quanto un po’ stinti, il grande grembiale turchino, e turchino il fazzoletto che portava in testa alla friulana. Del resto il volto conservava qualche traccia di bellezza passata; anzi il profilo ricordava quello d’Angiolina, ma la faccia ossuta e immobile con degli occhietti neri pieni d’inquietudine aveva qualche cosa della bestia attenta per sfuggire alle legnate. – Angiolina! chiamò ancora una volta. – Viene subito – avvertì con grande cortesia. Poi, senza guardarlo mai in faccia, disse più volte: – S’accomodi intanto. – La sua voce nasale non sapeva essere gradevole. Ella esitava come un balbuziente al principio di un discorso; poi tutta la frase le usciva di bocca ininterrotta, un solo soffio privo di qualunque calore.

      Ma, dall’altra parte del corridoio,

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