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Sotto il velame: Saggio di un'interpretazione generale del poema sacro. Giovanni Pascoli
Читать онлайн.Название Sotto il velame: Saggio di un'interpretazione generale del poema sacro
Год выпуска 0
isbn 4064066070403
Автор произведения Giovanni Pascoli
Жанр Языкознание
Издательство Bookwire
Per entro i miei disiri
che ti menavano ad amar lo bene,
di là dal qual non è a che si aspiri,
quai fossi attraversati, o quai catene
trovasti, per che del passare innanzi
dovessiti così spogliar la spene?
Il che vuol dire: nel seguire me che ti conducevo a Dio, quali ostacoli trovasti per la via? Or Dante s'era ingannato credendo di veder Beatrice e perciò Dio, dove non era nè Dio nè Beatrice.
Ond'ella pur rimproverando, di presenza, il suo amatore, come infedele, dice, quand'egli non è lì ad ascoltare:
l'amico mio e non della ventura.
Nella qual parola ventura sono da comprendere, a parer mio, tutti i beni che non fanno il vero bene; sicchè Beatrice viene a significare: checchè paia, me ama, e non altri nè altro.
Pure, di presenza, così acerbamente lo rimprovera, che non è meraviglia se gl'interpreti imaginano di Dante più gravi peccati che egli non confessi. Ma noi, prima di tutto, nei rimproveri della donna gentilissima, dobbiamo sceverare quelli che si riferiscono allo stato di Dante, dopo che egli ebbe incontrate le tre fiere, da quelli che si rapportano al suo errar nella selva. E poi dobbiamo considerare che i suoi sono rimproveri di chi ama a chi ama; e poi dobbiamo riconoscere che molte cose aggravano la pur piccola colpa di Dante.
Queste: Dante era nella vita nuova virtualmente capace d'ogni bella opera e per benigne disposizioni di stelle e per larghezza di grazie divine; poi aveva avuto per guida gli occhi giovinetti di Beatrice; poi aveva sperimentata la vanità delle cose umane, con la morte di Beatrice; poi si era trovato a scegliere non tra due beni quasi equivalenti, ma tra Beatrice la gentilissima, salita da carne a spirito e più bella e virtuosa che mai, e altri beni, sirene, vanità, pargolette non degne certo di essere paragonate a Beatrice viva non che a Beatrice morta. Ora il peregrino del Convivio merita ben più scusa. In vero all'anima “perchè la sua conoscenza prima è imperfetta, per non essere sperta, nè dottrinata, piccioli beni le paiono grandi...„ Ma la conoscenza di Dante era dottrinata e per gli abiti destri che già facevano prova in lui e per la luce di quelli occhi giovinetti; e per lo sparir d'essi oh! era anche sperta! Eppure piccioli beni a lui parevano grandi, poichè seguiva imagini di bene
che nulla promession rendono intera;
poichè si lasciava chiamare a terra, come uccellino invano ammaestrato da un primo strale dell'uccellatore, da
o pargoletta
o altra vanità con sì breve uso.
Ma, pur con questi gravami, di cui l'ultimo è da Beatrice significato con l'ironico, Alza la barba! pur con questi, Dante non è detto (per ciò, almeno, che si riferisce alla selva e allo smarrimento) reo, sì ingannato. Ricordiamo:[28]
Ben ti dovevi, per lo primo strale
delle cose fallaci, levar suso
di retro a me che non era più tale.
Non ti dovean gravar le penne in giuso
ad aspettar più colpi, o pargoletta
o altra vanità con sì breve uso.
Beatrice non era più cosa fallace; dunque era stata. Di lei era stato breve uso; dunque anche ella era stata una vanità. Dunque tra le cose fallaci, tra le vanità, tra le false imagini di bene, tra le presenti cose piene di falso piacere, ella poneva pur sè; sè viva; e pargoletta è da lei detto in memoria forse di quando ella apparve a Dante nella sua giovanissima età. Ella dice: una pargoletta come me, una vanità qual era io. Pure quella pargoletta conduceva Dante in dritta parte volto; e le altre no, non lo condussero; come si vide. Bene: ma qual grande peccato era di Dante, se nelle altre egli credeva vedere il bene che in quella pargoletta bella e nuova, il cui viso si era nascosto e i cui occhi giovinetti non lucevano più? Non dice egli che per dieci anni fu assetato di lei? Ferito dallo strale delle cose fallaci, correva qua e là, dove vedeva balenare uno specchio d'acqua, senza trovarlo mai, sì che la sete e' non la potè disbramare che quando di nuovo ella gli apparve sul santo monte[29].
III.
Ma se l'errar nella selva significa gl'inganni cui l'anima è soggetta “nel nuovo e mai non fatto cammino di questa vita„, inganni e niente altro che inganni di imagini di bene, sian pur false, e questi inganni sono causati dall'imperfezione naturale della conoscenza umana, che non è ancora sperta e dottrinata, e sia pur che sperta e dottrinata avrebbe dovuto già essere; come mai Dante dipinge questa selva così oscura e selvaggia e aspra e forte? Per sì leggiera e natural cosa, come mai sì gravi parole? In vero, per limitarmi agli effetti della selva sull'anima di chi vi erra dentro, ella
tanto è amara che poco è più morte,
e incute tanta paura, che la rinnova nel pensiero. Se, per esempio, il piacere della donna pietosa è uno dei fatti simboleggiati nella selva, non s'intende tanta paura e tanta amarezza di morte.
No: s'intende. Nel Convivio si comentano lungamente questi tre versi della canzone “Le dolci rime d'Amor, ch'io solia„:
Ma vilissimo sembra, a chi'l ver guata
chi avea scorto il cammino e poscia l'erra,
e tocca tal, ch'è morto, e va per terra.
Dante dice “che non solamente colui è vile, cioè non gentile, che disceso di buoni è malvagio, ma eziandio è vilissimo„. E aggiunge: “Perchè non si chiama non valente, cioè vile? Rispondo: Perchè non valente, cioè vile, sarebbe da chiamare colui, che non avendo alcuna scorta, non fosse ben camminato; ma perocchè questi l'ebbe, lo suo errore e 'l suo difetto non può salire; e però è da dire non vile ma vilissimo„.[30] Vile e viltà in tutto questo trattato del Convivio è opposto di nobile (che Dante deriva da non vile) e di nobiltà; e nobiltà o gentilezza o bontà è la perfezione umana la quale consiste nell'usar che faccia l'anima “li suoi atti nelli loro tempi e etadi, siccome all'ultimo suo frutto sono ordinati„.[31] Ora fortezza o magnanimità[32] è virtù di giovinezza; e il giovane che non l'abbia è non nobile, cioè vile. E Dante ci mostra nel poema, una volta tra le altre, il nobile in faccia al vile.[33]
Se io ho ben la tua parola intesa,
rispose del magnanimo quell'ombra, l'anima tua è da viltate offesa.
Il magnanimo è Virgilio, l'altro ingombrato da viltà, come cavallo ombroso, è Dante. Direste voi che Dante sia pauroso per quel rifiuto che tenta fare? Si tratta d'un'impresa quale solo al più nobile degli eroi e al più privilegiato dei santi riuscì. Dante dubita che la sua virtù non sia assai possente: la sua virtù è stanca. Eppure il magnanimo continuando dice:
di questa tema a ciò che tu ti solve;
e conclude:
perchè ardire e franchezza non hai?
Il che mostra che l'idea di paura è connessa, per Dante, con viltà, anche quando viltà non è bassezza propriamente o ignominia, ma l'opposto di magnanimità, che è quanto dire di nobiltà o gentilezza, cioè di quella “grazia„ o “divina cosa„ che fa quelli che l'hanno, “quasi come Dei„.[34]
Ora nel verso
che nel pensier rinnova la paura,[35]
e nell'altro
allor fu la paura un poco queta,[36]
si sottintende il concetto di viltà,