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volti e faceva guizzar di luci variopinte i vetri delle finestre, gli specchi, i cristalli delle botteghe. Spengevo a un tratto la visione, e quella testa restava lì di nuovo immobile e dura nell'apatico attonimento.

      Chi era colui? Nessuno. Un povero corpo, senza nome, in attesa che qualcuno se lo prendesse.

      Ma, all'improvviso, mentre cosí pensavo, avvenne tal cosa che mi riempí di spavento piú che di stupore.

      Vidi davanti a me, non per mia volontà, l'apatica attonita faccia di quel povero corpo mortificato scomporsi pietosamente, arricciare il naso, arrovesciare gli occhi all'indietro, contrarre le labbra in su e provarsi ad aggrottar le ciglia, come per piangere; restare cosí un attimo sospeso e poi crollar due volte a scatto per lo scoppio d'una coppia di sternuti.

      S'era commosso da sé, per conto suo, a un filo d'aria entrato chi sa donde, quel povero corpo mortificato, senza dirmene nulla e fuori della mia volontà.

      – Salute! – gli dissi.

      E guardai nello specchio il mio primo riso da matto.

      Dunque, niente: questo. Se vi par poco! Ecco una prima lista delle riflessioni rovinose e delle terribili conclusioni derivate dall'innocente momentaneo piacere che Dida mia moglie aveva voluto prendersi. Dico, di farmi notare che il naso mi pendeva verso destra.

      1a - che io non ero per gli altri quel che finora avevo creduto di essere per me;

      2a - che non potevo vedermi vivere;

      3a - che non potendo vedermi vivere, restavo estraneo a me stesso, cioè uno che gli altri potevano vedere e conoscere; ciascuno a suo modo; e io no;

      4a - che era impossibile pormi davanti questo estraneo per vederlo e conoscerlo; io potevo vedermi, non già vederlo;

      5a - che il mio corpo, se lo consideravo da fuori, era per me come un'apparizione di sogno; una cosa che non sapeva di vivere e che restava lì, in attesa che qualcuno se la prendesse;

      6a - che, come me lo prendevo io, questo mio corpo, per essere a volta a volta quale mi volevo e mi sentivo, cosí se lo poteva prendere qualunque altro per dargli una realtà a modo suo;

      7a - che infine quel corpo per se stesso era tanto niente e tanto nessuno, che un filo d'aria poteva farlo starnutire, oggi, e domani portarselo via.

      Queste due per il momento:

      1a - che cominciai finalmente a capire perché Dida mia moglie mi chiamava Gengè;

      2a - che mi proposi di scoprire chi ero io almeno per quelli che mi stavano piú vicini, cosí detti conoscenti, e di spassarmi a scomporre dispettosamente quell'io che ero per loro.

      Libro secondo

      I. Ci sono io e ci siete voi.

      Mi si può opporre:

      « Ma come mai non ti venne in mente, povero Moscarda, che a tutti gli altri avveniva come a te, di non vedersi vivere; e che se tu non eri per gli altri quale finora t'eri creduto, allo stesso modo gli altri potevano non essere quali tu li vedevi, ecc. ecc.? »

      Rispondo:

      Mi venne in mente. Ma scusate, è proprio vero che sia venuto in mente anche a voi?

      Ho voluto supporlo, ma non ci credo. Io credo anzi che se in realtà un tal pensiero vi venisse in mente e vi si radicasse come si radicò in me, ciascuno di voi commetterebbe le stesse pazzie che commisi io.

      Siate sinceri: a voi non è mai passato per il capo di volervi veder vivere. Attendete a vivere per voi, e fate bene, senza darvi pensiero di ciò che intanto possiate essere per gli altri; non già perché dell'altrui giudizio non v'importi nulla, ché anzi ve ne importa moltissimo; ma perché siete nella beata illusione che gli altri, da fuori, vi debbano rappresentare in sé come voi a voi stessi vi rappresentate.

      Che se poi qualcuno vi fa notare che il naso vi pende un pochino verso destra... no? che jeri avete detto una bugia... nemmeno? piccola piccola, via, senza conseguenze... Insomma, se qualche volta appena appena avvertite di non essere per gli altri quello stesso che per voi; che fate? (Siate sinceri). Nulla fate, o ben poco. Ritenete al piú al piú, con bella e intera sicurezza di voi stessi, che gli altri vi hanno mal compreso, mal giudicato; e basta. Se vi preme, cercherete magari di raddrizzare quel giudizio, dando schiarimenti, spiegazioni; se non vi preme, lascerete correre; scrollerete le spalle esclamando: "Oh infine, ho la mia coscienza e mi basta."

      Non è cosí?

      Signori miei, scusate. Poiché vi è venuta in bocca una cosí grossa parola, permettete ch'io vi faccia entrare in mente un magro magro pensiero. Questo: che la vostra coscienza, qua, non ci ha che vedere. Non vi dirò che non val nulla, se per voi è proprio tutto; dirò, per farvi piacere, che allo stesso modo ho anch'io la mia e so che non val nulla. Sapete perché? Perché so che c'è anche la vostra. Ma sí. Tanto diversa dalla mia.

      Scusatemi se parlo un momento a modo dei filosofi. Ma è forse la coscienza qualcosa d'assoluto che possa bastare a se stessa? Se fossimo soli, forse sí. Ma allora, belli miei, non ci sarebbe coscienza. Purtroppo, ci sono io, e ci siete voi. Purtroppo.

      E che vuol dunque dire che avete la vostra coscienza e che vi basta? Che gli altri possono pensare di voi e giudicarvi come piace a loro, cioè ingiustamente, ché voi siete intanto sicuro e confortato di non aver fatto male?

      Oh di grazia, e se non sono gli altri, chi ve la dà codesta sicurezza? codesto conforto chi ve lo dà?

      Voi stesso? E come?

      Ah, io lo so, come: ostinandovi a credere che se gli altri fossero stati al vostro posto e fosse loro capitato il vostro stesso caso, tutti avrebbero agito come voi, né piú né meno.

      Bravo! Ma su che lo affermate?

      Eh, so anche questo: su certi principii astratti e generali, in cui, astrattamente e generalmente, vuol dire fuori dei casi concreti e particolari della vita, si può essere tutti d'accordo (costa poco).

      Ma come va che tutti intanto vi condannano o non vi approvano o anche vi deridono? È chiaro che non sanno riconoscere, come voi, quei principii generali nel caso particolare che v'è capitato, e se stessi nell'azione che avete commessa.

      O a che vi basta dunque la coscienza? A sentirvi solo? No, perdio. La solitudine vi spaventa. E che fate allora? V'immaginate tante teste. Tutte come la vostra. Tante teste che sono anzi la vostra stessa. Le quali a un dato cenno, tirate da voi come per un filo invisibile, vi dicono sí e no, e no e sí; come volete voi. E questo vi conforta e vi fa sicuri.

      Andate là che è un giuoco magnifico, codesto della vostra coscienza che vi basta.

      Sapete invece su che poggia tutto? Ve lo dico io. Su una presunzione che Dio vi conservi sempre. La presunzione che la realtà, qual è per voi, debba essere e sia ugualmente per tutti gli altri.

      Ci vivete dentro; ci camminate fuori, sicuri. La vedete, la toccate; e dentro anche, se vi piace, ci fumate un sigaro (la pipa? la pipa), e beatamente state a guardare le spire di fumo a poco a poco vanire nell'aria. Senza il minimo sospetto che tutta la realtà che vi sta attorno non ha per gli altri maggiore consistenza di quel fumo.

      Dite di no? Guardate. Io abitavo con mia moglie la casa che mio padre s'era fatta costruire dopo la morte immatura di mia madre, per levarsi da quella dov'era vissuto con lei, piena di cocentissimi ricordi. Ero allora ragazzo, e soltanto

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