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questo pover'uomo che parla dei difetti del naso altrui!

      Avrei potuto, è vero, consolarmi con la riflessione che, alla fin fine, era ovvio e comune il mio caso, il quale provava ancora una volta un fatto risaputissimo, cioè che notiamo facilmente i difetti altrui e non ci accorgiamo dei nostri. Ma il primo germe del male aveva cominciato a metter radice nel mio spirito e non potei consolarmi con questa riflessione.

      Mi si fissò invece il pensiero ch'io non ero per gli altri quel che finora, dentro di me, m'ero figurato d'essere.

      Per il momento pensai al corpo soltanto e, siccome quel mio amico seguitava a starmi davanti con quell'aria d'incredulità derisoria, per vendicarmi gli domandai se egli, dal canto suo, sapesse d'aver nel mento una fossetta che glielo divideva in due parti non del tutto eguali: una piú rilevata di qua, una piú scempia di là.

      – Io? Ma che! – esclamò l'amico. – Ci ho la fossetta, lo so, ma non come tu dici.

      – Entriamo là da quel barbiere, e vedrai, – gli proposi subito.

      Quando l'amico, entrato dal barbiere, s'accorse con maraviglia del difetto e riconobbe ch'era vero, non volle mostrarne stizza; disse che, in fin dei conti, era una piccolezza.

      Eh sí, senza dubbio, una piccolezza; vidi però, seguendolo da lontano, che si fermò una prima volta a una vetrina di bottega, e poi una seconda volta, piú là, davanti a un'altra; e piú là ancora e piú a lungo, una terza volta, allo specchio d'uno sporto per osservarsi il mento; e son sicuro che, appena rincasato, sarà corso all'armadio per far con piú agio a quell'altro specchio la nuova conoscenza di sé con quel difetto. E non ho il minimo dubbio che, per vendicarsi a sua volta, o per seguitare uno scherzo che gli parve meritasse una larga diffusione in paese, dopo aver domandato a qualche suo amico (come già io a lui) se mai avesse notato quel suo difetto al mento, qualche altro difetto avrà scoperto lui o nella fronte o nella bocca di questo suo amico, il quale, a sua volta... – ma sí! ma sí! – potrei giurare che per parecchi giorni di fila nella nobile città di Richieri io vidi (se non fu proprio tutta mia immaginazione) un numero considerevolissimo di miei concittadini passare da una vetrina di bottega all'altra e fermarsi davanti a ciascuna a osservarsi nella faccia chi uno zigomo e chi la coda d'un occhio, chi un lobo d'orecchio e chi una pinna di naso. E ancora dopo una settimana un certo tale mi s'accostò con aria smarrita per domandarmi se era vero che, ogni qual volta si metteva a parlare, contraeva inavvertitamente la pàlpebra dell'occhio sinistro.

      – Sí, caro, – gli dissi a precipizio. – E io, vedi? il naso mi pende verso destra; ma lo so da me; non c'è bisogno che me lo dica tu; e le sopracciglia? ad accento circonflesso! le orecchie, qua, guarda, una piú sporgente dell'altra; e qua, le mani: piatte, eh? e la giuntura storpia di questo mignolo; e le gambe? qua, questa qua, ti pare che sia come quest'altra? no, eh? Ma lo so da me e non c'è bisogno che me lo dica tu. Statti bene.

      Lo piantai lì, e via. Fatti pochi passi, mi sentii richiamare.

      – Ps!

      Placido placido, col dito, colui m'attirava a sé per domandarmi:

      – Scusa, dopo di te, tua madre non partorí altri figliuoli?

      – No: né prima né dopo, – gli risposi. – Figlio unico. Perché?

      – Perché, – mi disse, – se tua madre avesse partorito un'altra volta, avrebbe avuto di certo un altro maschio.

      – Ah sí? Come lo sai?

      – Ecco: dicono le donne del popolo che quando a un nato i capelli terminano sulla nuca in un codiniccio come codesto che tu hai costí, sarà maschio il nato appresso.

      Mi portai una mano alla nuca e con un sogghignetto frigido gli domandai:

      – Ah, ci ho un... com'hai detto?

      E lui:

      – Codiniccio, caro, lo chiamano a Richieri.

      – Oh, ma quest'è niente! – esclamai. – Me lo posso far tagliare.

      Negò prima col dito, poi disse:

      – Ti resta sempre il segno, caro, anche se te lo fai radere.

      E questa volta mi piantò lui.

      Desiderai da quel giorno ardentissimamente d'esser solo, almeno per un'ora. Ma veramente, piú che desiderio, era bisogno: bisogno acuto urgente smanioso, che la presenza o la vicinanza di mia moglie esasperavano fino alla rabbia.

      – Hai sentito, Gengè(nota 1), che ha detto jeri Michelina? Quantorzo ha da parlarti d'urgenza.

      – Guarda, Gengè , se a tenermi cosí la veste mi pajono le gambe.

      – S'è fermata la pèndola, Gengè.

      – Gengè, e la cagnolina non la porti piú fuori? Poi ti sporca i tappeti e la sgridi. Ma dovrà pure, povera bestiolina... dico... non pretenderai che... Non esce da jersera.

      – Non temi, Gengè, che Anna Rosa possa esser malata? Non si fa piú vedere da tre giorni, e l'ultima volta le faceva male la gola.

      – È venuto il signor Firbo, Gengè. Dice che ritornerà piú tardi. Non potresti vederlo fuori? Dio, che nojoso!

      Oppure la sentivo cantare:

      E se mi dici di no, caro il mio bene, doman non verrò; doman non verrò... doman non verrò...

      Ma perché non vi chiudevate in camera, magari con due turaccioli negli orecchi?

      Signori, vuol dire che non capite come volevo esser solo.

      Chiudermi potevo soltanto nel mio scrittojo, ma anche lì senza poterci mettere il paletto, per non far nascere tristi sospetti in mia moglie ch'era, non dirò trista, ma sospettosissima. E se, aprendo l'uscio all'improvviso, m'avesse scoperto?

      No. E poi, sarebbe stato inutile. Nel mio scrittojo non c'erano specchi. Io avevo bisogno d'uno specchio. D'altra parte, il solo pensiero che mia moglie era in casa bastava a tenermi presente a me stesso, e proprio questo io non volevo.

      Per voi, esser soli, che vuol dire?

      Restare in compagnia di voi stessi, senza alcun estraneo attorno.

      Ah sí, v'assicuro ch'è un bel modo, codesto, d'esser soli. Vi s'apre nella memoria una cara finestretta, da cui s'affaccia sorridente, tra un vaso di garofani e un altro di gelsomini, la Titti che lavora all'uncinetto una fascia rossa di lana, oh Dio, come quella che ha al collo quel vecchio insopportabile signor Giacomino, a cui ancora non avete fatto il biglietto di raccomandazione per il presidente della Congregazione di carità, vostro buon amico, ma seccantissimo anche lui, specie se si mette a parlare delle marachelle del suo segretario particolare, il quale jeri... no, quando fu? l'altro jeri che pioveva e pareva un lago la piazza con tutto quel brillìo di stille a un allegro sprazzo di sole, e nella corsa, Dio che guazzabuglio di cose, la vasca, quel chiosco da giornali, il tram che infilava lo scambio e strideva spietatamente alla girata, quel cane che scappava: basta, vi ficcaste in una sala di bigliardo, dove c'era lui, il segretario del presidente della Congregazione di carità; e che risatine si faceva sotto i baffoni pelosi per la vostra disdetta allorché vi siete messo a giocare con l'amico Carlino detto Quintadecima. E poi? Che avvenne poi, uscendo dalla sala del bigliardo? Sotto un languido fanale, nella via umida deserta, un povero ubriaco malinconico tentava di cantare una vecchia canzonetta di Napoli, che tant'anni fa, quasi tutte le sere udivate cantare in quel borgo montano tra i castagni, ov'eravate andato a villeggiare per star vicino a quella cara Mimí, che poi sposò il vecchio commendator Della Venera, e morì un anno dopo. Oh, cara Mimí! Eccola, eccola a un'altra finestra che vi s'apre nella memoria...

      Sí, sí, cari miei, v'assicuro che è un bel modo d'esser soli, codesto!

      Io

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