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e per il contegno della mamma. Nel vedermi aggirar per casa come una mosca senza capo, quella bufera di femmina mi lanciava certe occhiatacce, lampi forieri di tempesta. Uscivo per levar la corrente e impedire la scarica. Ma poi temevo per la mamma, e rincasavo.

      Un giorno, però, non feci a tempo. La tempesta, finalmente, era scoppiata, e per un futilissimo pretesto: per una visita delle due vecchie serve alla mamma.

      Una di esse, non avendo potuto metter nulla da parte, perchè aveva dovuto mantenere una figlia rimasta vedova con tre bambini, s’era subito allogata altrove a servire; ma l’altra, Margherita, sola al mondo, più fortunata, poteva ora riposar la sua vecchiaja, col gruzzoletto raccolto in tanti anni di servizio in casa nostra. Ora pare che con queste due buone donne, già fidate compagne di tanti anni, la mamma si fosse pian piano rammaricata di quel suo misero e amarissimo stato. Subito allora Margherita, la buona vecchierella che già l’aveva sospettato e non osava dirglielo, le aveva profferto d’andar via con lei, a casa sua: aveva due camerette pulite, con un terrazzino che guardava il mare, pieno di fiori: sarebbero state insieme, in pace: oh, ella sarebbe stata felice di poterla ancora servire, di poterle dimostrare ancora l’affetto e la devozione che sentiva per lei.

      Ma poteva accettar mia madre la profferta di quella povera vecchia? Donde l’ira della vedova Pescatore.

      Io la trovai, rincasando, con le pugna protese contro Margherita, la quale pur le teneva testa coraggiosamente, mentre la mamma, spaventata, con le lagrime agli occhi, tutta tremante, si teneva aggrappata con ambo le mani all’altra vecchietta, come per ripararsi.

      Veder mia madre in quell’atteggiamento e perdere il lume degli occhi fu tutt’uno. Afferrai per un braccio la vedova Pescatore e la mandai a ruzzolar lontano. Ella si rizzò in un lampo e mi venne incontro, per saltarmi addosso; ma s’arrestò di fronte a me.

      – Fuori! ― mi gridò. ― Tu e tua madre, via! Fuori di casa mia!

      – Senti, ― le dissi io allora, con la voce che mi tremava dal violento sforzo che facevo su me stesso, per contenermi. ― Senti: vattene via tu, or ora, con le tue gambe, e non cimentarmi più. Vattene, per il tuo bene! vattene!

      Romilda, piangendo e gridando, si levò dalla poltrona e venne a buttarsi tra le braccia della madre:

      – No! Tu con me, mamma! Non mi lasciare, non mi lasciare qua sola!

      Ma quella degna madre la respinse, furibonda:

      – L’hai voluto? tientelo ora, codesto mal ladrone! Io vado sola!

      Ma non se ne andò, s’intende.

      Due giorni dopo, mandata ― suppongo ― da Margherita, venne in gran furia, al solito, zia Scolastica, per portarsi via con sè la mamma.

      Questa scena merita di essere rappresentata.

      La vedova Pescatore stava, quella mattina, a fare il pane, sbracciata, con la gonnella tirata su e arrotolata intorno alla vita, per non sporcarsela. Si voltò appena, vedendo entrare la zia e seguitò ad abburattare, come se nulla fosse. La zia non ci fece caso; del resto, ella era entrata senza salutar nessuno; diviata a mia madre, come se in quella casa non ci fosse altri che lei.

      – Subito, via, vèstiti! Verrai con me. Mi fu sonata non so che campana. Eccomi qua. Via, presto! il fagottino!

      Parlava a scatti. Il naso adunco, fiero, nella faccia bruna, itterica, le fremeva, le si arricciava di tratto in tratto, e gli occhi le sfavillavano.

      La vedova Pescatore, zitta.

      Finito di abburattare, intrisa la farina e coagulatala in pasta, ora essa la brandiva alta e la sbatteva forte apposta, su la madia: rispondeva così a quel che diceva la zia. Questa, allora, rincarò la dose. E quella, sbattendo man mano più forte: ― « Ma sì! ― ma certo! ― ma come no? ― ma sicuramente! » ― poi, come se non bastasse, andò a prendere il mattarello e se lo pose lì, accanto, su la madia, come per dire: ci ho anche questo.

      Non l’avesse mai fatto! Zia Scolastica scattò in piedi, si tolse furiosamente lo scialletto che teneva su le spalle e lo lanciò a mia madre:

      – Eccoti! lascia tutto. Via subito!

      E andò a piantarsi di faccia alla vedova Pescatore. Questa, per non averla così dinanzi a petto, si tirò un passo indietro, minacciosa, come volesse brandire il matterello; e allora zia Scolastica, preso a due mani dalla madia il grosso batuffolo della pasta, gliel’appiastrò sul capo, glielo tirò giù su la faccia e, a pugni chiusi, là, là, là, sul naso, sugli occhi, in bocca, dove coglieva coglieva. Quindi afferrò per un braccio mia madre e se la trascinò via.

      Quel che seguì, fu per me solo. La vedova Pescatore, ruggendo dalla rabbia, si strappò la pasta dalla faccia, dai capelli tutti appiastricciati, e venne a buttarla in faccia a me, che ridevo, ridevo in una specie di convulsione; m’afferrò la barba, mi sgraffiò tutto; poi, come impazzita, si buttò per terra e cominciò a strapparsi le vesti addosso, a rotolarsi, a rotolarsi, frenetica, sul pavimento; mia moglie intanto (sit venia verbo) receva di là, tra acutissime strida, mentr’io:

      – Le gambe! le gambe! ― gridavo alla vedova Pescatore per terra. ― Non mi mostrate le gambe, per carità!

      *

      Posso dire che da allora ho fatto il gusto a ridere di tutte le mie sciagure e d’ogni mio tormento. Mi vidi, in quell’istante, attore d’una tragedia che più buffa non si sarebbe potuta immaginare: mia madre, scappata via, così, con quella matta; mia moglie, di là, che… lasciamola stare!; Marianna Pescatore lì per terra; e io, io che non avevo più pane, quel che si dice pane, per il giorno appresso, io con la barba tutta impastocchiata, il viso sgraffiato, grondante non sapevo ancora se di sangue o di lagrime per il troppo ridere. Andai ad accertarmene allo specchio. Erano lagrime; ma ero anche sgraffiato bene. Ah quel mio occhio, in quel momento, quanto mi piacque! Per disperato, mi s’era messo a guardare più che mai altrove, altrove per conto suo. E scappai via, risoluto a non rientrare in casa, se prima non avessi trovato comunque da mantenere, anche miseramente, mia moglie e me.

      Dal dispetto rabbioso che sentivo in quel momento per la sventatezza mia di tanti anni, argomentavo però facilmente che la mia sciagura non poteva ispirare a nessuno, non che compatimento, ma neppur considerazione. Me l’ero ben meritata. Uno solo avrebbe potuto averne pietà: colui che aveva fatto man bassa d’ogni nostro avere; ma figurarsi se Malagna poteva più sentir l’obbligo di venirmi in soccorso dopo quanto era avvenuto tra me e lui.

      Il soccorso, invece, mi venne da chi meno avrei potuto aspettarmelo.

      Rimasto tutto quel giorno fuori di casa, verso sera, m’imbattei per combinazione in Pomino, che, fingendo di non accorgersi di me, voleva tirar via di lungo.

      – Pomino!

      Si volse, torbido in faccia, e si fermò, con gli occhi bassi:

      – Che vuoi?

      – Pomino! ― ripetei io più forte, scotendolo per una spalla e ridendo di quella sua mutria. ― Dici sul serio?

      Oh, ingratitudine umana! Me ne voleva, per giunta, me ne voleva, Pomino, del tradimento che, a suo credere, gli avevo fatto. Nè mi riuscì di convincerlo che il tradimento invece lo aveva fatto lui a me, e che avrebbe dovuto non solo ringraziarmi, ma buttarsi anche a faccia per terra, a baciare dove io ponevo i piedi.

      Ero ancora com’ebbro di quella gajezza mala che si era impadronita di me da quando m’ero guardato allo specchio.

      – Vedi questi sgraffii? ― gli dissi, a un certo punto. ― Lei me li ha fatti!

      – Ro… cioè, tua moglie?

      – Sua madre!

      E gli narrai come e perchè. Sorrise, ma parcamente. Forse pensò che a lui non li avrebbe fatti, quegli sgraffii, la vedova Pescatore: era in ben altra condizione dalla mia, e aveva altra indole e altro cuore, lui.

      Mi venne allora la tentazione di domandargli perchè dunque, se veramente n’era cosi addogliato, non l’aveva sposata lui, Romilda, a tempo, magari prendendo il volo con lei, com’io gli avevo consigliato, prima che, per la sua ridicola timidezza o per la sua indecisione,

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