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tra i denti:

      – Muso di cane!

      Ce l’aveva specialmente con me, che pure attendevo agli strampalati insegnamenti di Pinzone senza confronto più di Berto. Ma doveva esser la mia faccia placida e stizzosa e quei grossi occhiali rotondi che mi avevano imposto per raddrizzarmi un occhio, il quale, non so perchè, tendeva a guardare per conto suo, altrove.

      Erano per me, quegli occhiali, un vero martirio. A un certo punto, li buttai via e lasciai libero l’occhio di guardare dove gli piacesse meglio. Tanto, se dritto, quest’occhio non m’avrebbe fatto bello. Ero pieno di salute, e mi bastava.

      A diciott’anni m’invase la faccia un barbone rossastro e ricciuto, a scàpito del naso piuttosto piccolo, che si trovò come sperduto tra esso e la fronte spaziosa e grave.

      Forse, se fosse in facoltà dell’uomo la scelta d’un naso adatto alla propria faccia, o se noi, vedendo un pover’uomo oppresso da un naso troppo grosso per la sua faccia smunta, potessimo dirgli: ― Questo naso sta bene a me, e me lo piglio; ― forse, dico, io avrei cambiato il mio volentieri, e così anche gli occhi e tante altre parti della mia persona. Ma sapendo bene che non si può, io, rassegnato alle mie fattezze, non me ne curavo più che tanto.

      Berto, al contrario, bello di volto e di corpo (almeno paragonato con me), non sapeva staccarsi dallo specchio e si lisciava e si accarezzava e sprecava denari senza fine per le cravatte più nuove, per i profumi più squisiti e per la biancheria e il vestiario. Per fargli dispetto, un giorno, io presi dal suo guardaroba una marsina nuova fiammante, un panciotto elegantissimo di velluto nero, il gibus, e me ne andai a caccia, così parato.

      Batta Malagna, intanto, se ne veniva a piangere presso mia madre le mal’annate che lo costringevano a contrar debiti onerosissimi per provvedere alle nostre spese eccessive e ai molti lavori di riparazione di cui avevano continuamente bisogno le campagne.

      – Abbiamo avuto un’altra bella bussata! ― diceva ogni volta, entrando.

      La nebbia aveva distrutto sul nascere le olive, a Due Riviere; oppure la fillossera i vigneti dello Sperone. Bisognava piantare vitigni americani, resistenti al male. E dunque, altri debiti. Poi il consiglio di vendere lo Sperone, per liberarsi dagli strozzini, che lo assediavano. E così prima fu venduto lo Sperone, poi Due Riviere, poi San Rocchino. Restavano le case e il podere della Stìa, col molino. Mia madre s’aspettava ch’egli un giorno venisse a dire ch’era seccata la sorgiva.

      Noi fummo, è vero, scioperati, e spendevamo senza misura; ma è anche vero che un ladro più ladro di Batta Malagna non nascerà mai più su la faccia della terra. È il meno che io possa dirgli, in considerazione della parentela che fui costretto a contrarre con lui.

      Egli ebbe l’arte di non farci mancare mai nulla, finchè visse mia madre. Ma quell’agiatezza, quella libertà fino al capriccio, di cui ci lasciava godere, serviva a nascondere l’abisso che poi, morta mia madre, ingojò me solo; giacchè mio fratello ebbe la ventura di contrarre a tempo un matrimonio vantaggioso.

      Il mio matrimonio, invece…

      ― Bisognerà pure che ne parli, eh, don Eligio, del mio matrimonio?

      Arrampicato là, su la sua scala da lampionajo, don Eligio Pellegrinotto mi risponde:

      – E come no? Sicuro. Pulitamente…

      – Ma che pulitamente! Voi sapete bene che…

      Don Eligio ride, e tutta la chiesetta sconsacrata con lui. Poi mi consiglia:

      – S’io fossi in voi, signor Pascal, vorrei prima leggermi qualche novella del Boccaccio o del Bandello. Per il tono, per il tono…

      Ce l’ha col tono, don Eligio. Auff! Io butto giù come vien viene.

      Coraggio, dunque; avanti!

      Fu così.

      Un giorno, a caccia, mi fermai, stranamente impressionato, innanzi a un pagliajo nano e panciuto, che aveva un pentolino in cima a lo stollo.

      – Ti conosco, ― gli dicevo, ― ti conosco…

      Poi, a un tratto, esclamai:

      – To’! Batta Malagna.

      Presi un tridente, ch’era lì per terra, e glielo infissi nel pancione con tanta voluttà, che il pentolino in cima a lo stollo per poco non cadde. Ed ecco Batta Malagna, quando, sudato e sbuffante, portava il cappello su le ventitrè.

      Scivolava tutto: gli scivolavano nel lungo faccione, di qua e di là, le sopracciglia e gli occhi; gli scivolava il naso su i baffi melensi e sul pizzo; gli scivolavano dall’attaccatura del collo le spalle; gli scivolava il pancione languido, enorme, quasi fino a terra, perchè, data l’imminenza di esso su le gambette tozze, il sarto, per vestirgli quelle gambette, era costretto a tagliargli quanto mai agiati i calzoni; cosicchè, da lontano, pareva che indossasse invece, bassa bassa, una veste, e che la pancia gli arrivasse fino a terra.

      Ora come, con una faccia e con un corpo così fatti, Malagna potesse esser tanto ladro, io non so. Anche i ladri, m’immagino, debbono avere una certa impostatura, ch’egli mi pareva non avesse. Andava piano, con quella sua pancia pendente, sempre con le mani dietro la schiena, e tirava fuori con tanta fatica quella sua voce molle, miagolante! Mi piacerebbe sapere com’egli li ragionasse con la sua propria coscienza i furti che di continuo perpetrava a nostro danno. Non avendone, come ho detto, alcun bisogno, una ragione a sè stesso, una scusa, doveva pur darla. Forse, io dico, rubava per distrarsi in qualche modo, pover’uomo.

      Doveva essere infatti, entro di sè, tremendamente afflitto da una di quelle mogli che si fanno rispettare.

      Aveva commesso l’errore di scegliersi la moglie d’un paraggio superiore al suo, ch’era molto basso. Or questa donna, sposata a un uomo di condizione pari alla sua, non sarebbe stata forse così fastidiosa com’era con lui, a cui naturalmente doveva dimostrare, a ogni minima occasione, ch’ella nasceva bene e che a casa sua si faceva così e così. Ed ecco il Malagna, obbediente, far così e così, come diceva lei ― per parere un signore anche lui. ― Ma gli costava tanto! Sudava sempre, sudava.

      Per giunta, la signora Guendalina, poco dopo il matrimonio, si ammalò d’un male di cui non potè più guarire, giacchè, per guarirne, avrebbe dovuto fare un sacrifizio superiore alle sue forze: privarsi nientemeno di certi pasticcini coi tartufi, che le piacevano tanto, e di simili altre golerìe, e anche, anzi soprattutto, del vino. Non che ne bevesse molto: sfido! nasceva bene: ma non avrebbe dovuto berne neppure un dito, ecco.

      Io e Berto, giovinetti, eravamo qualche volta invitati a pranzo dal Malagna. Era uno spasso sentirgli fare, coi dovuti riguardi, una predica alla moglie su la continenza, mentre lui mangiava, divorava con tanta voluttà i cibi più succulenti:

      – Non ammetto, ― diceva, ― che per il momentaneo piacere che prova la gola al passaggio d’un boccone, per esempio, come questo ― (e giù il boccone) ― si debba poi star male un’intera giornata. Che sugo c’è? Io son certo che me ne sentirei, dopo, profondamente avvilito. Rosina! ― (chiamava la serva) ― Dammene ancora un po’. Buona, questa salsa majonese!

      – Majalese! ― scattava allora la moglie inviperita. ― Basta così! Guarda, il Signore dovrebbe farti provare che cosa vuol dire star male di stomaco. Impareresti ad aver considerazione per tua moglie.

      – Come, Guendalina! Non ne ho? ― esclamava Malagna, mentre si versava un po’ di vino.

      La moglie, per tutta risposta, si levava da sedere, gli toglieva dalle mani il bicchiere e andava a buttare il vino dalla finestra.

      – E perchè? ― gemeva quello, restando.

      E la moglie:

      – Perchè per me è veleno! Me ne vedi versare un dito nel bicchiere? Toglimelo, e va’ a buttarlo dalla finestra, come ho fatto io, capisci?

      Malagna guardava, mortificato, sorridente, un po’ Berto, un po’ me, un po’ la finestra, un po’ il bicchiere; poi diceva:

      – Oh Dio, e che sei forse una bambina?

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