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      Il riso riempì lo spazio avvolto dalle tenebre. “Sei solo quel che vuoi essere. Ognuno sceglie il proprio destino, artigiano”.

      “Faccio ciò che Dio mi ha donato con il mio risveglio”.

      “Dio ti ha assegnato il ruolo di maestro, ma lui non te lo permetterà mai. Perciò lo odii. Tu non sei un maestro”.

      “Posso creare ciò che m’immagino. Sono un maestro”.

      “E il suo schiavo. A che serve l’abilità se non puoi godertela?”. Set aveva colpito un punto delicato. Perché non riesco a calmarmi?

      “Che cosa volete?”, domandò. L’assenza di paura era assolutamente incredibile. Mi ha stregato. In qualche modo ci è riuscito.

      “Te l’ho già detto. Sono qui per darti il giusto riconoscimento, ma anche per farti un’offerta. Desideri la libertà, Gihtar?”.

      Non rispose subito. Forse è tutto un tranello, forse Kulu mi sta mettendo alla prova. Che sia un esame della mia maturità? Non aveva mai sentito di una pratica simile, ma il suo padrone era uno che si discostava spesso dalla norma. Qualcosa accanto a lui frusciò, e lui comprese che non poteva lasciarsi sfuggire quell’occasione. Non ora, non dopo tutto quel che aveva passato. Se Set se ne fosse andato, avrebbe potuto perdere per sempre ogni possibilità. Sarebbe andato fino in fondo, senza curarsi dell’esito.

      “La voglio”.

      “Quanto?”.

      “Più di ogni altra cosa”.

      La voce si fece più vicina. “Posso dartela, ma dovrai fare alcune cose, e farle esattamente come te le dirò. L’unica cosa che voglio è che tu sia risoluto nella tua decisione. Non c’è prezzo per quanto ti viene proposto, ma dovrai essere pronto a batterti”.

      “Sono pronto”, rispose Gihtar. Lo era davvero, più che mai.

      “Allora ascoltami con attenzione e cerca di ricordarti ogni mia parola. Un’occasione migliore, caro apprendista, non l’avrai mai”.

      »« »« »«

      Mancava ancora qualche ora all’alba, e Gihtar si sentiva comunque più stanco di quanto fosse stato da molto tempo. Anche se non c’era rischio che lo sentissero, scivolò silenziosamente attraverso la porta socchiusa della baracca, e tenendo d’occhio le ombre sgattaiolò fino al muro della bottega. Nella stanza aveva qualche metro di tela morbida, ottenuta in pagamento, e vi avvolse le suole rinforzate delle sue scarpe. Nel silenzio notturno si muoveva senza fare alcun rumore.

      Questa volta la bottega non era la sua destinazione. Era uno scarto rispetto alla pratica ormai da anni consolidata, ma era un nonnulla rispetto a quello che sarebbe dovuto accadere dopo. Per quanto fosse il simbolo della sua sofferenza e dell’ingiustizia subita, amava quel posto. Là da qualche parte mi attende qualcosa di meglio e di più bello, pensò mettendosi a cercare la risolutezza dentro di sé. Le istruzioni erano chiare, presto tutto ciò sarebbe stato soltanto una parte del suo difficile passato. Per sempre alle mie spalle.

      Il giardino era inondato dalla luce lunare. All’altra estremità si trovava il padiglione, che – come un fiore – si levava in alto su uno zoccolo di pietra. Da qualche parte laggiù meditavano Kulu e Sirmiona, incuranti della propria insolenza, sicuri della certezza di cui godevano immeritatamente. Non farò più parte di tutto ciò.

      In pochi passi Gihtar si trovò accanto al muro che cingeva la proprietà, ma non si diresse verso il cancello principale. Non ancora. Il terreno dietro la baracca non era così ben ordinato, ma rappresentava piuttosto l’altro lato della vita nella proprietà di Kulu, di cui lui stesso faceva parte. Pezzi rozzi di minerali e materie prime non lavorate erano accatastati in grosse pile nell’attesa che mani esperte dessero loro forma. La loro quantità non era conseguenza di un’attenta raccolta delle riserve, ma il frutto di un insensato acquisto di tutto ciò che si poteva avere con la minima spesa. A volte per mesi si accumulava solo legname, mentre vi erano periodi in cui ogni cinque giorni vi si scaricavano i metalli più svariati, spesso perdendo la possibilità anche solo di registrare quanto era stato così depositato. Ogni tanto accadeva che una pila crollasse, e se presagiva tale possibilità, il maestro la preveniva esortandoli a lavorare come dei forsennati e a riversare articoli già pronti nell’immenso magazzino sotterraneo.

      Ciò che lo interessava era il portone di servizio, e notò con felicità che era vuoto. Il compito di Tolum prevedeva tra le altre cose di montarvi la guardia durante la notte, ma la pigrizia riempiva ogni parte del suo essere. Probabilmente per la gran mole di lavoro e perché conducevano esistenze separate, Gihtar non aveva mai avuto l’occasione di conoscerlo meglio e anche i pochi contatti che avevano avuto non avevano suscitato in lui un desiderio più serio. La guardia era un’armatura vuota, tanto priva di personalità e tanto ordinaria che gli dava fastidio anche solo dedicargli i propri pensieri. Un tempo si era interrogato sul suo rapporto con il maestro, se anche lui condividesse la grave pena di un arduo servizio, ma alla fine si era stancato di tutto ciò. Se qualcuno meritava un superiore come Kulu, quello era Tolum.

      Come sempre, l’ampio portone era ben sbarrato. Gihtar dubitava che qualcuno se ne fosse occupato mentre lui era impegnato alla forgia. Aveva avuto indicazioni di svolgere tutti i lavori pesanti e probabilmente proprio una serie di incarichi era l’unica ricompensa che lo attendeva nei giorni successivi. Bussò con calma sul portone al ritmo del segnale concordato, e due ombre passarono come un fantasma presso il muro e si appostarono sulla sua sommità senza compiere più alcun movimento. Persino a una tale vicinanza era difficile distinguerle dall’ambiente circostante. Sicuramente per loro non è la prima volta.

      Doveva procedere oltre.

      Mentre lasciava i cumuli delle scorte alle sue spalle, gli sembrò di vedere un movimento sul muro opposto, ma non riuscì a capire se era solo la distanza a prendersi gioco di lui. Tieni conto solo di quanto ti dico di fare, gli era stato chiaramente indicato, e fermamente deciso ad attenersi a tali istruzioni si avvicinò alla dimora di Kulu. Si fermò solo quando avvistò Tolum.

      Era un kas grande e grosso, e ciò che impediva alla sua figura intera di essere armoniosa erano di fatto le mani – innaturalmente piccole in rapporto alla sua altezza, indubbiamente funzionali e tuttavia troppo impacciate per poter possedere qualche qualità più nobile della forza bruta. Lo stemma maldestramente ricucito del maestro Kulu, un martello da fabbro circondato da quella che sarebbe dovuta essere una collana, s’intravedeva appena sulla stoffa scadente della tunica che persino sotto il manto della notte appariva sporca. Se non riesco a convincerlo, sarò in guai grossi. Tastò il pezzo di carta rilegata e lo strinse forte. Le cose erano ormai andate troppo oltre, non poteva più tornare indietro e tutto quel che poteva fare era riporre la speranza nell’attendibilità delle promesse di Set. Nella tasca troverai un messaggio. Non leggerlo per nessuna ragione, ma dallo al guardiano quando arriverai sul posto.

      “Tolum”, lo chiamò sottovoce. Non vi fu alcuna reazione. Quanta devozione al proprio dovere. “Tolum”, tentò un po’ più forte, temendo per le possibili conseguenze. Anche se il guardiano era duro d’orecchi, i due dentro il padiglione no. Per fortuna, riuscì a strapparlo al suo sonno e lui alzò lo sguardo. Gihtar fece un passo avanti, facendogli segno con le mani di non fare rumore.

      “Che ci fai qui?”, sussurrò il guardiano.

      “Sono venuto a portarti questo”, gli porse il rotolo. Tolum lo fissò guardingo.

      “Che cos’è?”.

      “Una lettera per te”.

      “Una lettera? Sai che ora è?”.

      “Prendila e leggila, su”.

      “Non dovresti essere qui”, continuò l’altro, si guardò attorno, poi aggiunse più piano: “Da parte di chi?”.

      “Ti prego, prendila”.

      Tolum infine obbedì, e sembrò trascorrere un’eternità prima che riuscisse infine a sciogliere la cinghia con cui era avvolta. Gihtar

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