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Che qualcuno lo ammettesse o no, come mai prima di allora era certo del proprio posto nel mondo. Il maestro Gihtar.

      Quella sera stessa Kulu si presentò nella bottega con un altro kas. Dunque, ecco il cliente.

      Intorpidito dalla stanchezza, Gihtar era più rilassato che mai.

      “Questo è il mio apprendista”, lo indicò il maestro con la mano. Non gli aveva chiesto di uscire, ma ogni traccia di amorevolezza era ormai svanita. “Porta qui la merce”, tagliò corto.

      Di primo acchito il committente sembrava assolutamente ordinario, non si distingueva affatto da tutti gli altri che erano passati di lì. La camicia di seta, così comune ed economica, era sbottonata ai limiti del buoncostume, mentre i pantaloni erano infilati in alti stivali di pelle cotta. Persino io ne ho di migliori, un accenno di risata pervase Gihtar, ma riuscì a trattenersi. Il volto dello sconosciuto, quasi latteo come una pietra bianca, freddo e duro con le labbra tirate, faceva un’impressione ben più forte. Chiunque fosse, questo kas aveva attorno a sé un’aura di autorità: era quella la sensazione che provava, mentre l’uomo osservava in silenzio le dodici spade che, tornato dallo scantinato, Gihtar aveva riposto sul tavolo di fronte a lui. A giudicare dalla postura anche Kulu aveva avuto la stessa sensazione. Si tormentava nervosamente le dita, senza distogliere lo sguardo dall’acquirente.

      “Sono fatti col metallo più raffinato, che ne pensate? Prego, prendetelo in mano… sentite com’è al tatto”.

      Obbedendo al maestro, l’uomo afferrò l’elsa e fece qualche movimento agile e veloce attraverso l’aria. L’arma sembrò cantare nelle sue agili mani. L’ho fatto io, pensò Gihtar, io li ho forgiati e questo kas può uccidere con essi. Solo l’abilità poteva risvegliare la natura mortifera di un coltello. Guardando con quale abilità l’arma si muoveva nelle sue mani, Gihtar comprese che questa era l’ultima cosa che mancava al misterioso ospite.

      “È un buon lavoro, maestro. Proprio come avevi promesso”.

      Kulu prese a vantarsi.

      “Il mio nome è noto in lungo e in largo. In tutto ciò che faccio lascio una parte di me”.

      Il maledetto si fa bello del mio lavoro. Non che fosse una novità, ma questa volta la situazione era ben diversa. Se per tutti i braccialetti, le collane, le corazze, le piastre e tutte le altre cose gli era toccato creare senza nemmeno la parvenza di ricevere il benché minimo riconoscimento era riuscito a rimanere zitto, non aveva intenzione di lasciar correre con quest’ultima sua creazione. Le armi che aveva forgiato erano qualcosa di ben più serio – non erano orecchini e accessori che qualcuno avrebbe indossato nell’insensato tentativo di imitare la bellezza e la gloria. Erano la prova della sua maturità – come fabbro e come kas. È vero che una parte di qualcuno rimane impressa per sempre nel ferro lucente, ma questa parte non apparteneva a chi lo aveva dichiarato. Da dove si è preso un simile diritto? Gihtar aprì la bocca, pronto a difendere il proprio onore ad ogni costo, ma prima di riuscire a emettere un suono, rimase atterrito. Se l’impudente tentativo dell’apprendista aveva colpito il maestro, non era il caso del committente.

      Il suo sguardo gli imponeva di trattenersi.

      Non pensò neppure di mettere in discussione quanto gli avevano ordinato quei due occhi di un nero brillante nello spazio di un secondo. No. Il viso era privo d’espressione, ma gli occhi ardevano di vita.

      “I miei servitori passeranno a ritirare la merce e ti porteranno la somma pattuita. Entro stanotte”, le labbra tirate si aprirono solo per far passare le avide parole.

      Kulu chinò la testa. “Va bene, va bene. L’importante è che nessuno sospetti…”.

      “Non preoccuparti. Piuttosto fa’ attenzione che la tua lingua non si spinga troppo oltre”.

      “Non c’è di che preoccuparsi, la discrezione è il mio motto. Spero che lavoreremo a lungo insieme e che ne siate soddisfatto”.

      Il suo interlocutore chinò la testa. “Per quanto riguarda il tuo inventario…”, ma non finì la frase. Kulu, con un’impazienza totalmente in disaccordo con il comportamento tenuto fino ad allora, alzò la mano bloccandolo a metà della frase.

      “Questi sono solo inutili braccialetti, anelli e qualche altra robetta. Non li terrei nemmeno, se non mi ci avessero costretto i debitori. Ci sono kasi di ogni sorta – arrivano, ordinano la merce, la portano via e non pagano. E così io m’impoverisco, devo darmi da fare e prego Dio di riuscire a ripagare almeno un po’ le mie pene, almeno con questi ninnoli. Ecco il motivo per cui ce li ho”.

      “Dunque non sarà un problema vendermeli”, rispose pacifico l’estraneo. Kulu fece un cenno di dissenso.

      “Non vi arrabbiate, ve ne prego. Vi ho detto che non voglio farlo. La mia Sirmiona è solo una kasa, le ho dato la mia parola che questi gioielli sono suoi”.

      “Sei un uomo d’affari. Ogni cosa ha un prezzo”.

      Gihtar riusciva a percepire la pena del maestro. Non poteva immaginare di quali gioielli si trattasse, ma la consapevolezza della sua sottomissione alla kasa con cui condivideva il tetto lo divertiva. Era strano, lo conosceva bene e sapeva che per il giusto prezzo avrebbe venduto la sua stessa pelle. Come ha fatto quella lì a comprarlo?

      “Vi prego”, continuò Kulu quasi implorandolo, “posso farvi delle copie identiche. Le farò per metà del prezzo che farei a chiunque altro, cosa ne dite? Come gesto dalla mia buona volontà, in vista dei lavori futuri”.

      “Non dubito della tua abilità”. Il suo sguardo si soffermò appena un attimo su Gihtar. “Sono certo che le copie sarebbero persino meglio degli originali. Tanto buone che neanche l’interessata si accorgerebbe della differenza”.

      Pur messo con le spalle al muro, il maestro non si arrendeva. “Non sono in vendita”, la sua voce era secca ma decisa. Come se non fosse successo nulla, il suo interlocutore s’inchinò velocemente e si avviò verso la porta.

      “Non serve che mi accompagni, conosco la strada”.

      Kulu si trattenne ancora un po’ nella bottega, senza accennare a quanto era appena successo. Fissava l’inventario con aria assente, borbottava fregandosi la barba e scrutava quasi impaurito in ogni angolo. Poi si tranquillizzò e ordinò a Gihtar di riposarsi fino all’indomani, regalandogli un sorriso amichevole in segno di riposta quando quegli gli chiese altro tempo libero. Erano trascorsi tre mesi di lavoro sanguinoso, e a giudicare dalle parole del maestro tutto si sarebbe dovuto concludere così. L’apprendista lo maledisse tra sé e sé e poi, dopo lungo tempo, si diresse verso la propria baracca.

      La stanchezza accumulata fece la sua parte. Non appena ebbe incrociato le gambe e appoggiato le spalle al freddo muro, gli occhi si chiusero da soli. Il silenzio lo inondò, e iniziò a cullarlo dolcemente. Le emozioni gli inondarono il corpo e lo attraversarono fino alla punta delle dita, dalla quale fuoriuscirono in lontananza e tornarono depurate. Da lì tutto si sfogava, e lui sentì un piacevole flusso di tensione che presto sarebbe sparito dagli arti. Finalmente.

      Quando una voce iniziò a parlare, cercò invano di sobbalzare.

      “Lo odii?”, nel silenzio più assoluto il sussurro risuonò come un tuono.

      “Chi va là?”, il corpo non obbediva, gli occhi continuavano a restare chiusi, ma almeno la voce non si rifiutava di obbedire. “Chi va là?”, domandò nuovamente. Conosceva la risposta prima ancora di ottenerne una.

      “Calmati, non avere paura. Puoi chiamarmi Set”.

      “Pensavo… pensavo foste uscito”.

      “Sono tornato per dare il giusto riconoscimento al tuo lavoro. Da molto tempo non m’imbattevo in un simile ferro. Dimmi, lo odii?”.

      Qualcosa nel suo tono, nell’atmosfera in generale, lo liberò dalla paura e gli fece provare un’inspiegabile vicinanza. Gihtar sapeva di non poter mentire. E non voleva mentire.

      “Lo odio”, rispose.

      “Anch’io

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