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a Dio. Eppure, lui li ha premiati con una morte lenta. Penso che avrebbero di gran lunga preferito il mio dono”.

      “Uccidere un corpo è il più grave dei delitti”.

      “Ma lui li uccide comunque. Perché?”.

      “Abbiamo tutti un destino, ci svegliamo con esso, lo viviamo e alla fine ci avviamo verso il riposo. Al di là del destino, però, esistono circostanze che in esso si possono manifestare in modo diverso. La morte cancrenosa è solo una di esse. Quando ci sono favorevoli, le chiamiamo fortune. Quando non lo sono, ci arrabbiamo con Dio e diciamo che è ingiusto”.

      “Le circostanze giustificano le mie intenzioni. Non sarebbe forse sensato abbreviare la loro sofferenza? I corpi non sentiranno l’invito nella Torre di Cristallo”. Kalon non si arrendeva.

      Anche se era perfettamente consapevole di parlare con un morente, Sarius decise di essere sincero.

      “Forse sembra sensato a te e a quelli che ti somigliano”, iniziò. “Al momento, non per tua colpa, la portata di ciò che ti turba si trova tra le mura questa stanza. Non è neanche più una malattia, perché è diventata parte di voi. Questa è la morte, Kalon, e tu per questo pensi che il culto del corpo non abbia senso. Quel che mi preoccupa, al di là dello spazio che al momento condividiamo, è quanto succede agli altri kasi che si trovano nella mia circoscrizione, e al di fuori di essa. Sono queste le mie mura. Tra di esse risiedono le mie speranze per un domani migliore, e per questo m’importano. Ora immagina una coscienza i cui confini non esistono, una cui singola scelta sbagliata possa sconvolgere l’ordine perfetto in cui anche noi siamo stati creati, immagina le sue mura e le sue speranze, poi dimmi – abbiamo il diritto di innalzarci al suo stesso livello?”.

      Kalon taceva. L’ho offeso, pensò Sarius, ma proprio allora arrivò la risposta.

      “Parli con saggezza per essere un predicatore. Posso parlare apertamente?”.

      “Certo”.

      “Puoi immaginare perché non ho portato le mie intenzioni fino alla fine?”.

      “Hai onorato la regola? Alla fine hai riconosciuto di peccare?”.

      “No, idiota! Temevo che mi si staccasse la gamba!”. Kalon scoppiò in un altro impeto di riso spezzato, e questa volta anche Sarius si unì a lui. Qualcosa in quel kas era degno di ammirazione.

      Un colpo deciso alla porta raggelò il riso sulle loro bocche. Un’onda di luce abbagliante lo colpì negli occhi e Sarius scorse il contorno di un kas imponente. La sagoma fece qualche passo in avanti. Era straordinariamente corpulento e indossava la scadente imitazione di un’uniforme, rattoppata usando pezzi di diverse divise. I pantaloni sembravano fatti con la fodera delle uniformi dell’Ordine, sbiadite e probabilmente raccolte dalla spazzatura. I lunghi capelli neri erano raccolti in un codino unto che pendeva moscio sul petto. Aveva un’aria tanto sgraziata nella sua altezza che pareva si tenesse in equilibro bilanciandosi mentre teneva con entrambe le mani un bastone a due bracci con delle lame al posto delle estremità. Sarius non aveva il minimo dubbio sulla sua professione ancora prima che iniziasse a parlare.

      “Mi scuso con vostra santità per aver interrotto così la festa!”. La risata di Kalon era musica in confronto al rumore che veniva dalla sua gola. “Vi prego di benedirmi, io sono Herek!”, fece una brutta imitazione di un inchino e senza attendere risposta strappò via il mucchio di stracci sotto a cui giaceva il malato.

      Sarius si alzò, conscio che il balsamo vitale che era rimasto sul pavimento avrebbe presto iniziato a riversarsi al di là dell’orlo dell’involto che avrebbe dovuto contenerlo.

      “Vattene di qui. Non abbiamo niente per te, qui ci sono solo malati”.

      Il bruto si accigliò, poi fece qualche passo avanti.

      “Ti sbagli, santità. Qui non c’è più nulla per i cadaveri di cui ti prendi cura”. Lo allontanò con sgarbatezza e il predicatore si tenne a fatica in piedi. Il bandito si chinò, quindi afferrò e annusò il balsamo. “Pensate di curarli con questa risciacquatura?”. Il suo sguardo si abbassò su Kalon, che in silenzio osservava la scena. Con una mano enorme avvicinò lo stracciò al suo volto e gli premette la testa contro il muro, finché la crema biancastra lì rimasta grondò per la pressione. “Eccolo qui, ti senti meglio, cadavere?”. Rise sguaiatamente, evidentemente soddisfatto del suo sadico gioco. Il malato non emetteva più alcun suono.

      “Smettila immediatamente o ne pagherai le conseguenze!”, gridò Sarius.

      “Pagare le conseguenze a chi, verme? A chi? Alla Chiesa? A Dio? All’Ordine?”, urlò il bandito puntandogli la punta del bastone nel petto. “A chi?”.

      “Di questi malati mi occupo io e loro sono il mio dovere. Ogni impedimento intenzionale all’adempimento del mio dovere sullo spazio pubblico è considerato insubordinazione civica e come tale è trattato in accordo con la legge”. Neppure lui sapeva da dove gli fosse venuta l’idea di citare le dichiarazioni del compendio per le situazioni critiche, ma per qualche strano caso questo aveva placato un briciolo il bruto. Tuttavia, le parole che seguirono non erano meno sinistre.

      “Ascoltami bene. Questo spazio appartiene ai sani, ficcatelo bene nella tua santissima zucca. Me ne sbatto dell’asta e della legge e dell’Ordine e della Chiesa intera se serve. Vogliamo che spariate, e se ti trovo un’altra volta qui, farò in modo che la punta del mio bastone ti finisca in un occhio”. Senza attendere la risposta, Herek si voltò e se ne andò.

      Sarius attese un paio d’istanti, quindi tentò di aprire la porta. Per fortuna, era ancora integra. Poi tornò indietro e si chinò accanto a Kalon. L’infelice lo guardava con un triste sorriso e Sarius sentì dolore e impotenza come un colpo allo stomaco.

      “Stai bene?”, gli domandò, e la mano si mosse da sola per spalmare i pochi rimasugli di balsamo che gli erano gocciolati sul volto e sul collo.

      “Sì. E come potrei stare dopo un simile trattamento?”.

      “Erano già venuti?”.

      “No”, rispose Kalon. “È la prima volta che vedo uno di loro”.

      Non vi erano parole con cui avrebbe potuto esprimere tutto ciò che provava in quel momento. Avrebbe quasi desiderato ammalarsi e giacere accanto ai sofferenti rimasti.

      “Ascoltami, Kalon, ascolta bene. Chiederò all’Ordine di mandare già stasera qualcuno a proteggervi”.

      “Lasciate perdere, predicatore. Hanno lavori più importanti che occuparsi dei cadaveri. Come avete detto anche voi, questa regione è abitata da molti kasi, e un gruppetto di morti viventi è solo un granello di sabbia nell’infinito”:

      Non pensavo che suonasse così, pensò Sarius, messo in trappola dalle sue stesse parole. Ognuno aveva il diritto alla pace. Persino la follia avrebbe dovuto riconoscere dei limiti.

      “Manderanno qualcuno, è sicuro”, fu tutto quel che riuscì a rispondere.

      Come se volesse confortarlo, Kalon con fatica gli toccò la mano. Come ho potuto credere che avesse veramente le forze per strisciare?

      Mentre tornava con passo affrettato in chiesa, Sarius si sentiva più malato di lui.

      »« »« »«

      Il torrione della Chiesa della Speranza si stagliava altero contro il cielo serale. Le teste in pietra dei Quattro guardavano la città da ciascun lato dell’antico campanile, rappresentando le emanazioni basilari dell’Eternorisorto – il Sarto, il Pensatore, il Creatore e il Messaggero. Proprio di fronte all’arco del portone, Sarius levò lo sguardo su di essi. L’assenza di reazioni fu reciproca.

      Nel cortile sedeva una ventina di predicatori. Il tempo del servizio si avvicinava alla fine e si erano lentamente raccolti prima di andare a meditare nelle celle comuni. Parlavano in gruppetti e alcuni di loro chinarono la testa in segno di saluto. Non volendo unirsi a loro, procedette oltre. Gli eventi a cui aveva assistito lo avevano scosso profondamente, e doveva adempiere alla promessa data prima di ritirarsi per raccogliere

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