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si può dire ogni cosa. I Pisani non vogliono essere oppressi da Fiorenza; e tanta è la ripugnanza loro a quel giogo, che vogliono piuttosto quello di Genova, dimenticando il colpo mortale della Meloria. Potrebbe Genova accettare l’invito, e noi di casa Fiesca goderne, se Genova fosse nostra più che non sia. La teniamo in parte, preponderandovi con l’aiuto del re Cristianissimo, a cui siamo d’aiuto pur noi, tenendogli in fede la Repubblica. Ma più teniamo e con maggior sicurezza la Riviera di Levante, quanta n’è dall’Appennino al mare tra la Scrivia e la Magra, non senza forti scolte nelle valli del Taro e della Baganza. A noi, non a Genova, si spetta di andare in soccorso di Pisa. Ma c’è qualcun altro che vorrebbe mettersi avanti in nostro luogo. Quest’altro non ve lo dice la lettera di Gian Aloise, perchè non tutto si confida allo scritto; ma egli è Gian Giacopo Trivulzio, il quale, se non forse quanto Gian Aloise Fiesco, è pur molto in grazia del re Cristianissimo. Non pare a Voi che in questo caso avrà ragione il primo che metta innanzi le mani? A questo occorre un uomo assai destro, che vada ad offrire gli aiuti, a concertarne il modo; e tutto ciò non in nome del Comune, che non sarebbe prudente consiglio aggravar dell’impresa, ma di quell’uomo che in Genova è più potente e a Pisa più prossimo per l’ampio dominio. Accettano? Sì, perchè nella estremità a cui sono ridotti non hanno altro partito. E Voi allora vi potete scoprir meglio, come capitano della gente che aspetterà un cenno vostro per accostarsi alla città, fronteggiare i Fiorentini e lasciare a terra il Trivulzio con le sue ambizioni. Questo in digrosso il pensiero del nostro eccelso parente; le cose minute vi dirà egli in Violata. —

      Bartolomeo Fiesco stava fra due; nè già pei commenti di Filippino, che lo avrebbero anzi persuaso a dire un no tondo tondo, ma per la lettera di Gian Aloise. Si volse allora alla madre, domandandone con gli occhi il parere.

      – È cortesia lo andare; – disse madonna Bianchinetta. – Se tu non puoi accettare, figliuol mio, dirai meglio le tue ragioni a voce, che non per iscritto. —

      Si volse egli allora a sua moglie, e n’ebbe queste parole:

      – Bisogna andare. Te lo avevo già detto per la prima lettera; e nella seconda son nuove ragioni, che mostrano anche molta fede in te. Si verrebbe meno alla fede di un tant’uomo, non andando alla chiamata.

      – Ah! siate lodata, madonna Juana; – gridò Filippino giubilante. – Sarete voi la fortuna di casa Fiesca. —

      Fior d’oro non potè trattenersi dal ridere.

      – Vedete, – diss’ella, – da che distanze doveva ella venire!

      – Eh! – rispose Filippino. – Le vie della Provvidenza son tante! Si partirà dunque domattina; – soggiunse. – Gian Aloise sarà così lieto di riverirvi! —

      Correva troppo, messer Filippino bello; e fu fermato di schianto.

      – Voi mi mettete d’un viaggio che io non farò certamente; – rispose Fior d’oro. – È delle donne custodire la casa. Stando accanto alla madre di mio marito, mi parrà di non averlo tutto perduto, per quei due giorni che vorrà durarne l’assenza.

      – E se durasse di più? – domandò Filippino, che non voleva darsi per vinto.

      – Allora… allora, si vedrebbe; – rispose conchiudendo Fior d’oro.

      Quella sera, ritirandosi nelle sue stanze, il capitano Fiesco diceva alla moglie:

      – Filippino mi annoia.

      – Annoia anche me; – rispose Fior d’oro. – Ma è giovane; si cheterà. Intanto bisogna riderne.

      – Potere! È lui, frattanto, il noioso che mi mette tutti questi impicci sulle braccia. Non lo vedi tu, che fa scrivere due lettere in un giorno, e ad un oscuro uomo come il tuo Damiano, dall’eccelso Gian Aloise Fiesco, potentissimo tra i signori d’Italia, ed amicissimo del re di Francia? Io, come dice frate Alessandro, faccio un ridosso ai Commentarii di Cesare: ma il vecchio di Violata vuol farne un altro alle Epistole di Cicerone, che son più di ottocento.

      – Vedi? – gli disse sorridendo Fior d’oro. – Bisogna andare, perchè non n’abbia a scrivere altrettante.

      – Andare, – riprese Damiano, più Damiano che mai in quell’ora, – e dirgli quel no, che avrei potuto mettere in carta?

      – Non è certo, – replicò la bellissima donna, – che quel no si possa scriver meglio, potendolo dire con garbo, dopo aver sentite tutte le ragioni del tuo nobil parente. Ci penserai, del resto, le peserai attentamente. Potresti anche lasciarti persuadere da qualche ragione più forte, che toccasse l’utilità della casa e l’onor del tuo nome. La ragione più forte non ci sarà? Il tuo no sembrerà detto dopo aver meditato, e ad ogni modo ne avranno scemato l’asprezza le parole cortesi e la stessa tua condiscendenza all’invito. —

      Damiano guardò Fior d’oro con tenerezza, e le pose al collo le braccia.

      – Bella bocca! – le mormorò. – Bella bocca, che parla così bene!

      – Bella! – ripetè ella con accento malizioso. – E non cara?

      – E bella e cara, – gridò Damiano, con uno de’ suoi impeti di passione, – e, se vi piace di saper tutto, adorata. —

      Capitolo V.

      Al soccorso di Pisa

      Il palazzo di Gian Aloise Fiesco sorgeva sul colle di Carignano, accanto alla chiesa patronata che un cardinal Luca Fiesco, diacono di Santa Maria in Vialata a Roma, aveva ordinato nel 1336 fosse eretta in Genova col medesimo titolo; donde il nome di Vialata si stese a tutta quella parte della collina, corrompendosi poi nel dialettale “Viovâ„ per rifarsi ancora italiano in “Violato„ e dar occasione a qualche moderno di derivarlo “dalla copia delle viole che vi nascevano e soave fragranza diffondevano intorno„. Chi sente l’arcana poesia dei fiori può anche contentarsi di questa etimologia, che ha dopo tutto il gran merito di suscitare graziosi pensieri.

      Non ne suscitava di tali il palazzo, edificato presso il fianco sinistro e perciò a mezzodì della chiesa, con la quale faceva angolo il suo fianco destro, conterminando il piazzale di quella fino al bastione, che in guisa di belvedere si stendeva lassù verso ponente per un gran tratto del colle. E mentre da quel lato il palazzo dei Fieschi dominava il prospetto della superba Genova, fronteggiando il colle di Sarzano e la mole dell’antico Castello, guardava da tramontana il vasto anfiteatro del monte Peraldo colla sua gran cinta di mura alte sui greppi; da mezzogiorno, poi, vedeva gran tratto di mare, solcato da centinaia di vele, che uscivano dal porto o venivano all’approdo, passando sotto i suoi occhi lungo la Marinella, detta altrimenti il seno di Giano; e da levante, se pur non iscorgeva il Bisagno, nascosto sotto le alte mura di Santa Chiara, godeva la scena incantevole del colle d’Albaro, colla imminente piramide del monte Fasce e collo sfondo azzurro del promontorio di Portofino, dietro a cui si stendeva la riviera di Levante, oramai diventata un gran feudo dei Fieschi.

      Al palazzo, che meglio si sarebbe detto castello, si accedeva da due parti; da levante per un viale campestre, collegato alla via che dall’Acquasola e dagli Archi di Santo Stefano metteva a San Giacomo di Carignano, e là si presentava difeso da due grossi torrioni; da ponente, ove appariva più alto, quasi impervio come una rupe Tarpea, si giungeva ad esso dal borgo dei Lanieri, lungo il Rivo Torbido. Colà, passato appena il convento e la chiesa de’ Servi, si levava pel dorso della Montagnola una gran cordonata di oltre cento scaglioni, onde si risaliva ad un loggiato coperto, di là riuscendo ad un ingresso laterale dell’edifizio, aperto sopra una vasta spianata di giardino. Arrivati finalmente lassù, si godevano i particolari di quella nobile fabbrica, onde da lontano si era ammirata soltanto la maestà del complesso. Non dissimilmente dalla chiesa contigua, il palazzo era sui quattro lati incrostato di marmi a fasce alterne bianche e nere, rotte a giuste distanze da grandi finestre, partite a colonnini; e le finestre, inframmezzate da statue, raccolte nelle loro nicchie sagomate con bell’arte d’intagli, erano fiancheggiate da lunghi ramponi di ferro, rivoltati a staffa, tutti terminati in un giglio di ferro battuto, certamente in omaggio cortigianesco ai gigli di Francia. A quei ramponi sporgenti, che altri casati di parte ghibellina usavano decorare d’un capo d’aquila,

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