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ossia la insegna della gente, scudo, cimiero e motto, espressi in pietra di Lavagna e murati ben alto sui prospetti del palazzo. Più basso, per modo che si vedesse bene dai viandanti, era murata la targa indicante il privilegio d’immunità dalla forza della giustizia, onde il Comune aveva donate le case dei Fieschi. In quelle targhe, o liste di marmo, poste sugli angoli dell’edifizio, si vedevano scolpite due mani rivolte alla croce di Genova; ed erano i segni “ultra quae non licebat satellitibus homines infestare„.

      Descritta la forma esterna del palazzo di Vialata, sarebbe forse utile fare altrettanto per gli appartamenti e gli arredi. Ma noi abbiamo soltanto da accompagnarci Bartolomeo Fieschi, il quale non vorrà restarci lungamente; perciò tralasceremo una descrizione che troppo somiglierebbe ad un inventario, nella sua aridità notarile. Luigi XII, che alloggiò in Vialata nell’anno 1502, ebbe a dire, certamente prendendo occasione dal palazzo del suo ospite, che le case dei Genovesi erano più doviziose e meglio fornite della stessa sua reggia. Io, per amore dell’arte, accennerò soltanto che nel vestibolo Gian Aloise aveva fatto dipingere a buon fresco i Giganti fulminati da Giove; motivo che indi a poco doveva essere imitato da Pierino del Vaga nella caminata di Andrea Doria a Fassòlo. Rivalità di sfoggio signorile, che incominciava a mostrarsi in forme artistiche e mitologiche, per girar poi alle manifestazioni politiche e diguazzare nel sangue! Per opera di un altro Gian Luigi, quarantadue anni più tardi, il Giove ottuagenario di Fassòlo, mortogli il nipote Giannettino e minacciata da presso la recente sua reggia, era costretto a fuggire di nottetempo infino ai monti di Voltri; ritornato di là a cose quiete, non perdonò la paura che gli avevan fatta provare, e prese a fulminare i Giganti di Vialata, abbattendone l’orgoglio, diroccandone dalle fondamenta il palazzo fastoso.

      Nella sua gran caminata, dipinta da Leonardo dell’Aquila, finalese, e da Giacomo Serfoglio, da Salto, l’eccelso Gian Aloise ricevette il parente aspettato. Bartolomeo Fiesco era alloggiato da gentiluomo a Gioiosa Guardia, con gusto severo ed onesta larghezza, secondo il costume dei vecchi. Là dentro, in Vialata, era una varietà artistica che prendeva accortamente da tutti paesi, ed una profusione di lusso da abbagliare la vista. Tappeti di Fiandra coprivano i pavimenti; forzieri ferrati alla francese si alternavano lungo le pareti a gran sedie intagliate di noce, alcune sormontate dalle armi gattesche e roveresche accollate, altre dalle armi gattesche e carrettesche, a ricordare i successivi matrimonii di Gian Aloise con Bartolomea della Rovere, nepote di papa Giulio II, e con Caterina del Carretto, sorella al marchese del Finale. Archi turcheschi con le loro faretre, vecchi trofei di ammiragli della casata, ornavano la gran cappa del camino, di pietra di Lavagna, riccamente intagliato a fiori, fogliami, chimere ed altre forme di mostri, non esclusi i soliti imperatori romani. Qua e là in vistose credenze si accoglievano a centinaia gli arnesi di prezioso metallo; idrie, guastade d’argento lavorato a rilievo e dorato, catini e piatti d’argento istoriato, confettiere d’argento niellato alla barcellonese. Ma più assai delle opere d’orefice, più ancora d’una collana di grosse perle in numero di settantatrè, che si ammirava con altre gemme in una vetrina particolare, colpivano il visitatore gli arazzi ond’erano coperte le vaste pareti, con certe istorie del Testamento vecchio, tra cui primeggiava per bontà di disegno e vivezza di colori, come per terribilità di effetti, quella di Nabucodonosor, il gran colosso dal piede d’argilla. In una sala attigua alla caminata il nostro capitano Fiesco aveva già dovuto fermarsi a contemplare altri arazzi, che recavano espressa la storia romanzesca di Biancafiore.

      Al giungere del suo parente di Gioiosa Guardia si levò l’eccelso Gian Aloise dal gran seggiolone di cuoio dorato su cui stava seduto, davanti ad una tavola lunga, coperta di quel drappo turchino che fin d’allora si chiamava “da consigli„ poichè già si fabbricava a quell’uso, di coprir tavole da adunanze. Nel mezzo del drappo erano ricamate le armi dei Fieschi, ripetute da per tutto, perfino sul calamaio quadro di legno d’ebano intarsiato, nel manico d’argento del temperatoio, e sul pernio delle forbicette dorate che gli facevano compagnia. In tutti i particolari, in tutte le minuzie, appariva il lusso sfoggiato e il consapevole orgoglio d’un principe. Non ci maravigliamo se mirasse al dominio di Pisa.

      Dall’anno 1494 ardeva la guerra tra Firenze e Pisa, questa amando viver libera, e quella volendo signoreggiarla. Nè a Genova nè al suo potentissimo Gian Aloise Fiesco tornava che i Fiorentini dilatassero maggiormente l’imperio, poichè non solo questi agognavano l’occupazione di Pisa, ma insidiavano Pietrasanta e Sarzana. Per tali ragioni si accoglieva l’ambasceria dei Pisani, che offrivano di congiungersi perpetuamente con la Repubblica genovese, pronti ad accettarne le leggi. Ma qui cominciavano ancora i dissensi. Erano nel Senato nobili e popolani, cioè famiglie antiche feudali, e famiglie di popolo grasso, salite ai primi gradi, ma non tenute pari a quell’altre, che pur da talune popolari avevano lasciato occupare il dogato, designandole un pochettino a scherno col soprannome di Cappellazzi. Erano queste le famiglie dei Fregosi e degli Adorni, dei Montaldi e dei Guarchi, sempre appoggiate a questa o a quella delle famiglie nobili, o feudali, dei Fieschi e dei Grimaldi da un lato, dei Doria e degli Spinola dall’altro. Ma l’appoggio era dato in guisa, che, le rivalità continuando tra i Cappellazzi, non potesse mai prosperare e soverchiare una parte di loro, e i nobili godessero tranquilli fuor di città i loro dominii feudali, lavorando ancora ad estenderli come potessero, gli uni con la prevalenza della parte guelfa, gli altri della parte ghibellina in Italia. Guelfi i Fieschi e i Grimaldi, dovevano facilmente trionfare nei secoli XIV e XV, in cui cadevano quasi da per tutto in Italia le fortune imperiali. Doria e Spinola, dal canto loro, dovevano presto rifarsi, colla protezione di Spagna. Intanto, nel periodo incerto della prevalenza francese in Italia, e guelfi e ghibellini, essendo nobili tutti, parevano sentirla ad un modo, per opporsi alle ambizioni dei popolari; onde si vide nel primo trentennio del secolo XVI andar pienamente d’accordo i Fieschi coi Doria.

      Tornando alle offerte di Pisa, com’erano fatte solennemente al Senato genovese, proponevano i popolari di accettarle, soccorrendo quella nobil città, non senza concedere ai Pisani la cittadinanza di Genova, e mandando famiglie genovesi quante più si potesse a stabilirsi in Pisa. Consiglio generoso e prudente era quello; ma non poteva piacere a Gian Aloise Fiesco, vicario e capitano generale della Riviera di Levante. Pisa soccorsa con un esercito pari al bisogno, altro non significava che la Riviera di Levante aperta a quell’esercito; onde per allora scemata l’autorità del capitan generale, e in processo di tempo perduto l’util dominio di quel vicariato. Pisa soccorsa con poca gente, significava vittoria dei Fiorentini, col loro voltarsi minaccioso non pure contro Pietrasanta e Sarzana, ma ancora e più contro i dominii feudali dei Fieschi.

      Di qui la opposizione che alle offerte dei Pisani aveva fatta Gian Aloise in Senato, mettendo innanzi che non si potesse far nulla senza il beneplacito del re Cristianissimo, a cui Genova si era data in balìa. E perchè il re Luigi si trovava allora di qua dalle Alpi, si sentisse lui, se n’esplorasse l’animo, prima di deliberare il soccorso di Pisa. Così nascevano le due ambasciate d’ufficio; una ai Pisani, per dar buone parole, l’altra al re Luigi, per averne il parere.

      Ma il re Luigi doveva rispondere in quel modo che al Fiesco tornasse più utile. E perchè la risposta volgesse favorevole alle ambizioni del potente signore, andavano lettere di costui; portate da un suo fidatissimo uomo, a quel re. In pari tempo occorreva guadagnar l’animo dei Pisani, mandando loro un altr’uomo per chiedere se il valido e sicuro aiuto d’un gran signore genovese non potesse convenir loro assai più dell’incerto e scarso che dar poteva il Senato. Certo, ponendo in questa forma il dilemma, i Pisani non avrebbero esitato un istante. E perchè il re Cristianissimo si sarebbe acconciato ai fatti compiuti, occorreva che l’uomo mandato ai Pisani fosse destro negoziatore e capitano risoluto ad un tempo, cioè pronto a tirar dentro un grosso di soldatesche, già preparato a due terzi di strada, per unirlo a difesa della città con le forze di Pisa, comandate allora da Tarlatino di Città di Castello, un condottiero che si poteva sperare di trar bellamente agli interessi del futuro padrone.

      Bartolomeo Fiesco era stato a sentire, tanto più attento, quanto più a lui era rivolto il discorso; come spesso occorre nelle assemblee grandi e piccole, che gli argomenti tutti dell’oratore e tutti i lenocinii dell’arte sua mirano sempre ad uno tra gli ascoltatori, e gli altri sono come zeri, destinati a far numero con quella unità. Certo, se il capitano Fiesco accettava di esser egli l’uomo per Pisa, il partito di soccorrer questa con le forze dei Fieschi era vinto; il re Cristianissimo avrebbe approvato il fatto; Gian Giacopo Trivulzio sarebbe rimasto colla

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