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alla sua desinenza, il nome del commendatore di Calatrava era venuto a decorare la femmina. Gran matti, quei cani, essendo ancora molto giovani; più matti di Polidamante, col quale facevano a correre nei cortili e nei fossi di Gioiosa Guardia. Ma per allora, o che sentissero la gravità del momento, o che avessero abbastanza rosicchiato in cucina, si erano adagiati in quel vano, come due sfingi di basalto, colle zampe anteriori accostate e coi musi allungati sulle zampe. Facevano così per godere quanto più potevano la frescura del pavimento? o non piuttosto per prepararsi a gustare la prosa robusta d’uno scrittore italiano?

      Bartolomeo Fiesco prese i suoi fogli in mano; tossì, com’era di rito, e poi disse:

      – Frate Alessandro li chiama i Commentarii di Cesare; ma egli s’inganna a partito. Cesare raccontava le cose da lui medesimo operate, e con tanta fortuna; io le cose che ho viste accadere, e non liete, pur troppo. Quæque ipse miserrima vidi…

      – Et quorum pars magna fuisti;– aggiunse prontamente frate Alessandro.

      – Ah no; fui parte, ma piccola; – ribattè il capitano Fiesco. – Questo capitolo, poi, a farlo a posta, narra di cose avvenute quando io e voi, frate Alessandro, fummo partiti dalla Giamaica su quel guscio di noce, lasciando il nostro grand’uomo a combattere con l’ira degli elementi e con quella degli uomini sulla spiaggia di Maima. Tutta roba adunque che sapemmo poi, al ritorno, e che naturalmente ho dovuto restringere in una mezza dozzina di pagine.

      – Leggete, principale, leggete! – gridò il Passano. – Non ce le fate sospirare, vi prego.

      – Lo volete, e sia. Tossisco ancora una volta, e incomincio; – disse il capitano Fiesco. – Non m’interrompete; le vostre osservazioni potrete dirmele poi. Non fate rumore, che la mamma vuol sentir bene ogni cosa. A farvi bere ci penserà Polidamante, che per muoversi non ha bisogno d’inviti. —

      Dopo questo preambolo il capitano Fiesco incominciò la lettura dei suoi Commentarii, al capitolo XXV: Di quel che seguì alla Giamaica, come ne fu partito il Mendez col Fiesco.

      “Partite le canòe per l’isola di Haiti, la gente dei navigli cominciò ad ammalarsi, così pei travagli del fortunoso viaggio, come per la mutazione dei cibi, non avendo più vino, nè altra carne che d’utia, quando pure potevano procacciarsene dai naturali. Aspra vita; e dovevano durarla, stando colà sequestrati? Certamente ci sarebbero morti d’inedia, dicevano alcuni; perchè l’Almirante non voleva ritornare in Ispagna, dond’era stato bandito, nè all’isola di Haiti, dove alla vista di tutti il commendatore di Lares gli aveva proibito di toccar San Domingo, per quanto bisogno ne avesse. Sarebbero tornate le canòe del Mendez e del Fiesco? soggiungevano i fratelli Porras, che primeggiavano tra i mormoratori scontenti. Quei due potevano esser giunti a San Domingo, ma forse per andar di là in Castiglia, a perorare la causa dell’ammiraglio caduto in disgrazia. E che questo potesse anch’essere il vero, lo dimostrava il fatto che il Fiesco, avendo avuto oramai il tempo di andare a San Domingo e tornare, non era più ricomparso. Del resto, potevano le due canòe essersi anche perdute: si doveva per questo rimanere laggiù ad aspettare una morte sicura, chiusi in quelle due navi sdruscite, per capriccio d’un gottoso, la cui stella era tramontata da un pezzo? Essi ancor sani, e, per grande fortuna, dovevano pensare ai casi loro, e andarsene a San Domingo, per raccontare all’Ovando come fossero trattati tanti onorati Spagnuoli da quell’avventuriere italiano. L’Ovando sicuramente li avrebbe rimandati in Castiglia, dove li avrebbero ascoltati e vendicati il vescovo Fonseca e il tesoriere Morales.

      “Così parlavano i Porras, uno dei quali era il capitano della arenata Bermuda, e l’altro il notaio capo della spedizione. E Francesco e Diego furono tanto più facilmente ascoltati, in quanto che si sapeva da tutti che d’una loro sorella era il Morales fortemente invaghito. Entrarono quarantotto nella congiura dei Porras; e il giorno 11 di gennaio del 1504 il capitano Francesco se ne andò di buon mattino colla saliva amara dal signor Almirante, che era inchiodato dalla gotta nel suo giaciglio a poppa. “Perchè restiamo qui? gli chiese. Non vi par tempo di levarci da questo cimitero?„ Le parole del Porras fuor del costume arroganti, lasciarono intendere al signor Almirante che quell’uomo avesse già molti a spalleggiarlo; e più se ne persuase, quando, alle sue ragioni alzando le spalle, il capitano della Bermuda gridò con piglio sdegnoso: io me ne vado in Castiglia, con coloro che vorranno seguirmi. Ed usciva così dicendo dal castello di poppa, l’insolente capitano; e a lui si univano tumultuando i seguaci della sua ribellione, mettendo mano alle scuri, e gridando all’Almirante ed ai suoi: mueran! mueran! col qual grido si riscaldavano il sangue.

      “A quelle voci balzò dal giaciglio il signor Almirante, e venne zoppicando sull’uscio. Accorsero i suoi familiari, ed altri che l’obbedivano ad ogni costo, per fargli scudo dei loro petti contro quei forsennati. Altri correvano a trattenere l’Adelantado, il valoroso don Bartolomeo Colombo, che già abbrancata una lancia si disponeva come Achille a dar dentro. E gli uni e gli altri consigliavano al capitano Porras di non tentare la sorte di una strage fraterna, che anco a lui poteva costare la vita: se ne andasse pure coi suoi, quanti fossero, quanti volessero seguirlo.

      “Accetta quell’altro il partito, forse immaginando che a far peggio, e con fortuna, non avrebbe poi evitato un castigo. Egli e i suoi scendono dalle navi; slegano dieci canòe che il signor Almirante aveva comperate dai naturali, per tenerle pronte ad ogni stremo; vi tirano dentro molti rematori dell’isola, che hanno con belle promesse adescati, e mettono la prora verso levante, costeggiando, come avevano veduto fare al Fiesco ed al Mendez.

      “Andando così marina marina, spesso calavano a terra, e prendevano a forza quanto lor bisognasse. Pagherà l’ammiraglio, diceva il capo dei ribelli; se non vi pagherà ammazzatelo pure, essendo egli prima e vera cagione d’ogni male, e per voi e per noi, come pei vostri fratelli di Haiti. Con queste arti si vettovagliavano ogni dì. Giunti finalmente alla punta orientale della Giamaica, e fatte le maggiori provvigioni per il lungo tragitto, si spinsero in alto mare, ma non andando più di quattro leghe lontano. Il vento si era voltato; si procedeva a stento coi remi, e le onde furiose entravano a far carico, minacciando di affondare o di capovolgere le lunghe e sottili imbarcazioni. Bisognò alleggerire, buttando le vettovaglie; bisognò alleggerire ancora, buttando i poveri Indiani che s’erano fidati alle belle promesse. Così ne perirono diciotto; con altri pochi che stavano ai remi, si toccò finalmente la riva, delusi d’ogni speranza, famelici, ed armati; perchè alle armi non avevano già rinunziato.

      “Che fare? Alcuni proponevano di aspettare il buon tempo, e di navigare a Cuba, donde più facilmente avrebbero raggiunto Haiti. Altri, non intieramente guasti dell’anima, consigliavano di tornar pentiti al signor Almirante. Prevalse il partito dei Porras, di restar liberi, scorrazzando per l’isola. Non marcirebbero nelle navi; con l’armi alla mano otterrebbero da vivere; e là, stando alle vedette, aspetterebbero come tutti gli altri una via di salute. Era il partito peggiore, derivandone il malcontento dei poveri isolani, soggetti alle rapine continue di quella schiera malvagia. E un altro guaio sovrastava agli uomini rimasti obbedienti sulle navi. A provvederli di cassava e dei frutti della terra gli isolani si erano volentieri adattati. Ma quella povera gente, vissuta fino allora con pochi bisogni, non faceva grandi seminagioni. I figli del Cielo distruggevano in un giorno più di quello che i naturali del paese consumassero in venti. Dovevano lasciarsi taglieggiare dai ribelli, e provvedere in pari tempo agli uomini del Giocomina, per il ricambio di qualche campanello, o d’una manata di perline di vetro? Così avvenne che dispregiando i baratti e dimenticando le fatte promesse, non portassero più nulla, trascurando perfino di accostarsi alle navi.

      “In quel terribile frangente una ispirazione celeste venne al pensiero del gran Genovese. Altri dirà che le sue cognizioni d’astronomia gli tornarono utili. E l’una cosa e l’altra possono ritenersi per vere. Scelto il suo giorno, che fu l’ultimo di febbraio, mandò un naturale di Haiti ad invitare i capi delle vicine tribù, che freddi si dimostravano, ma non erano nemici, e in lui riponevano fede. Avutili a sè, parlò in questa guisa: – Noi siamo cristiani; il nostro Dio abita in cielo, buon re per tutti i suoi sudditi, e dei buoni ha cura, e i malvagi castiga. Già voi vedete come abbia punito i cristiani ribelli, non permettendo che si allontanassero dalla vostra isola contro il comando del loro Giocomina; vi vedrete ora puniti con fame e peste voi stessi, che non portate più alle navi le vettovaglie pattuite. Non lo

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