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tempo, d'altra parte, che vi diciamo qualche cosa intorno al cuore della marchesa Ginevra, che fu una delle più notevoli donne della nostra generazione, in quella guisa che è una delle più importanti nel viluppo di questa veridica storia. Già minutamente ve l'abbiamo dipinta nella prima parte del libro, nè abbiamo tralasciato di accennarvi le egregie doti del suo intelletto; del cuore abbiamo detto soltanto che ancora non aveva dato segno di vita, così restando ella una donna della quale non si capiva un bel nulla. Tentiamo ora di capirne qualcosa; la lettera è qui:

      «Sono finalmente nella mia tranquilla dimora di Quinto, dove mi è dato di respirare, di vivere. Sei mesi di agitazioni, di feste, di cure, di molestie parigine, non fanno anche a te, mia bellissima, desiderare la quiete della tua Bretagna? Le veglie, i teatri, le visite, le mille cure della città, opprimono me pure, m'infastidiscono per cinque o sei mesi colla monotona sequela dei loro trabalzamenti, e mi fanno parere cento volte più bella, più cara, questa mia vita campestre. Vivo in città, come il fiore nell'aria soffocata d'una stufa; qui torno all'aperto, dove il tepore è sano, dove la luce ravviva.

      «Anche quassù s'alternano le visite e i passatempi; ma questi non sono comandati dalla consuetudine; la mia mente li trova e li varia a sua posta; quelle poi si ristringono a un picciol numero di famigliari, uomini sempre, e spesso adoratori molesti, ma sotto la comportabile maschera dell'ossequio, o della amicizia.

      «Uomini! stirpe volgare, la cui ammirazione ti rimpicciolisce, il cui amore ti offende! Io non so intendere, per verità, come ci possano essere di così stolte donne, le quali commettano il cuore, la vita loro, al facile, insolente entusiasmo di un uomo. Or vedi che cosa avviene, sotto i nostri occhi, ogni giorno. Perchè una donna è giovane e bella (ardisco scrivere in tal guisa a te, mia bellissima, che m'hai guastata colle tue lodi e che solevi chiamarmi la tua __petite madone italienne__), si ascrivono a debito di ammirarla, di farle intendere in mille modi, non escluso quello della persecuzione, che ella ha l'altissimo onore di piacer loro non poco. Perchè questa donna ha un marito, tal volta severo e uggioso, tal altra maturo d'anni e logoro di cuore, eccoli tosto ad arrogarsi il diritto di amarla e di sperare che li ami. Questa è villania, insulto universale e continuo, che ognuna di noi è costretta a patire, e la più parte ne godono; tanto è vero che la servitù ci ha invilito lo spirito!

      «Mi chiedi del Montalto, se continua a fare il malinconico. Sì, mia bellissima, continua, e va peggiorando; ma ti giuro che tutto ciò mi dispiace. Io lo stimavo assai più, allorquando, scrivendoti della mia prima comparsa di donna in questa società genovese, ti accennavo com'egli fosse il solo che non avesse cercato di farsi presentare a me, e in teatro, mentre tutti gli sguardi erano rivolti alla tua __petite madone italienne__, egli solo ostentasse di volger le spalle. Fui curiosa di conoscerlo, questo bizzarro giovinotto, del quale tutti erano, e sono ancora, invaghiti; e ciò forse ha potuto darti di me un concetto disforme dal vero. Egli è venuto, come sai, alla mia veglia annuale di congedo, e mio marito se n'è innamorato come tutti gli altri, egli che non va pazzo per alcuna cosa al mondo. Ma di lui ti ho già parlato a lungo, e di tutti i suoi amori colla politica: laonde non ti sarà difficile indovinare che la sua amicizia pel Montalto ha le sue radici nella ragion di Stato, che a noi donne mette i brividi addosso. Per fartela breve, il giovine amico è già venuto tre volte a Quinto, e mio marito vorrebbe vederlo ogni giorno. Intanto, sai che scoperta ho fatto io? Potrei dartela alle cento, alle mille, come madama Sevignè nella sua famosa lettera, che ci hanno fatta leggere tante volte in collegio, e tanto non la indovineresti. Figurati che quel suo contegno, quella sua arcana severità, nascondevano un antico affetto. E per chi? Per la madonnina italiana.

      «Il primo giorno della mia villeggiatura, vado a salutare la Corte d'amore della marchesa Tullia, e quella tavola di lavagna che sai. Sull'orlo di quella tenera lastra di pietra che cosa trovo? Inciso il mio nome, __Ginevra__. Tutto ciò mi dà molto da fantasticare. Chi è stato? Vo a squadernare l'albo dei visitatori della villa. Son tutti nomi di Francesi, di Tedeschi, d'Inglesi, e di persone ignote. Ma l'incisore del mio nome, dico tra me, ha da essere uno del nostro ceto, e che mi conosca per bene. Ora io non so raccapezzarmi tra i nomi scritti nell'albo; due soli mi tengono dubbiosa, due nomi strani, due nomi d'antichi trovatori, Goffredo Rudel e Percivalle Doria. Piglio lingua dal giardiniere. Il brav'uomo si ricorda della venuta di due gran signori, giovani ambedue; l'uno pallido, biondo e svelto della persona, taciturno e infermiccio in apparenza; l'altro di capel bruno, spigliato nei modi, chiacchierino e sempre in moto. Sono certamente costoro che hanno lasciato quei due nomi nell'albo; il giardiniere ha notato che s'era negli ultimi giorni di febbraio, e sulla pagina c'è appunto scritta la data di quel mese. Essi visitarono la villa per ogni verso; ma, il biondo, che pareva stanco, non era andato più oltre della prateria, e, mentre il compagno scendeva nella grotta, era andato a sedersi presso la tavola di lavagna. Ci siamo, ho detto tra me; l'ignoto incisore è il giovine biondo.

      «Ma ciò non bastava ancora; ho cavato le parole di bocca al Pietrasanta, l'amico inseparabile del Montalto, e lì, tra mille chiacchiere sbadatamente fatte, ho potuto sapere che egli era stato, in un tempo non molto lontano, a visitare la nostra villa. Non ho chiesto di più, per non metterlo in sospetto; ma il mio dubbio s'è fatto certezza; il tenue filo della mia logica mi ha guidato a questa scoperta: Aloise di Montalto aveva un segreto, e questo segreto lo ha confidato ad una tavola di lavagna, credendola muta. Ma oramai non parlano anche le tavole?

      «Scriva a suo talento, il signorino: cada egli pure ed affoghi nella consuetudine di tutti gli uomini suoi pari. Ahimè, mia bellissima! non ci sono creature perfette quaggiù; salvo te, s'intende, salvo la prediletta, la lontana dagli occhi, ma non dal cuore di Ginevra.»

      Di questa lettera, come dell'altre scritte prima e poi alla viscontessa di Roche Huart, come, a farla breve, di tutto ciò che pensasse la bella Ginevra, nulla poteva sapere Aloise. Però, argomenti il lettore come rimanesse sgomentito a quella improvvisa dimanda della marchesa, intorno ai due trovatori. Un fulmine, caduto a ciel sereno, non lo avrebbe scosso più forte. Per un tratto rimase muto; e fu ventura che altri parecchi gli fossero compagni, ai quali la domanda era rivolta come a lui; se no, impacciato come un pulcino nella stoppa, non avrebbe trovato niente da dire, e, quel che è peggio, il rossore lo avrebbe tradito.

      Primo a rompere il silenzio fu il Cigàla, che rispose candidamente di non conoscere que' due personaggi. Il piccolo Riario fece una ugual confessione; altri due si strinsero nelle spalle; perfino il De' Carli tartagliò le sue quattro parole di scusa. Il Pietrasanta stette duro, come se la cosa non lo risguardasse punto, e se la cavò mandando una languida occhiata alla marchesa Giulia, che si fece tutta rossa nel volto. Ma i lettori non facciano sospetti temerarii; la marchesa arrossiva facilmente, perchè a ciò la traeva il suo color naturale.

      Restava Aloise; ma, in quella che gli altri parlavano, il nostro giovine s'era fatto un cuor da leone. Non si diventa prodi, se non guardando in faccia il pericolo. Cotesto occorre in battaglia, e molti che leggono ne avranno fatto sperimento in sè stessi. Chinar la testa una volta al sibilar delle palle, conduce a chinarla per sempre; mettersi al riparo dietro un ciglione, persuade a non trarne più fuori la testa; e l'occasione, che potrebbe fare dell'uomo un eroe, la occasione se ne va, lasciando il soldato nella sua codarda postura.

      Aloise aveva veduto il suo segreto scoperto; ma, tocco sul vivo, aveva pure considerata in un batter d'occhio la sua condizione disagiata, e fatto il proposito di uscirne. Però, a mala pena ebbe il marchese Onofrio tartagliate le sue scuse, volse lo sguardo animoso a Ginevra, e le disse:

      – Orbene, se gli amici non la sanno, vedrò di raccontarvela io; ma quella soltanto di Goffredo Rudel, che l'altra del Doria non l'ho presente ora.

      – Ci contenteremo di quella; – rispose Ginevra.

      – Incomincio, dunque; ma badate, signora, che è lunga.

      – Oh, non ve ne date pensiero; il tempo è tutto nostro.

      – Aloise, – bisbigliò il Pietrasanta all'amico, – ero venuto per parlarti di un negozio…

      – Me ne parlerai più tardi! – interruppe Aloise, con un accento che non isfuggì al fine udito della marchesa Ginevra.

      E mentre tutta la nobile brigata si raccoglieva ad udirlo, Aloise, non senza arrossire un tantino, così incominciò la la narrazione:

      – «Goffredo Rudel, signore di Blaia, è uno dei primi

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