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muro; altre arrischiano un’occhiata tra diffidente e curiosa; qualcuna, più ardita, saetta uno sguardo provocatore e abbassa il viso sorridendo. Ma la più parte hanno un aspetto triste, stanco, avvilito. Son graziose le ragazzine, non ancora obbligate a coprirsi; occhi neri, visetto pieno, carnagione pallida, boccuccie rotonde, mani e piedi piccini. Ma a vent’anni son già vizze, a trenta, vecchie, a cinquanta, disfatte.

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      V’è a Tangeri un mostro, una di quelle creature su cui non si può fissare lo sguardo, e che gettano per un momento anche nell’anima d’un credente lo sgomento del dubbio. Si dice che è una donna; ma non sembra nè donna nè uomo. È una testa d’urango, mulatta, coi capelli corti ed irsuti, uno scheletro colla pelle, coperta di cenci neri, quasi sempre distesa come un corpo morto nel mezzo della piazzetta, o seduta in un angolo, immobile e muta come un’insensata, quando non la molestino i ragazzi, ai quali si rivolta urlando o piangendo. Può aver quindici anni, può averne trenta: la sua mostruosità nasconde l’età. Non ha parenti, non ha casa, non si sa come si chiami nè donde venga. Passa la notte accovacciata per le strade, in mezzo alle immondizie e ai cani. Gran parte del giorno dorme; quando ha da mangiare, ride; quando ha fame, piange; quando è sole, è un mucchio di polvere; quando piove, è un ammasso di fango. Una notte, passandole accanto, uno di noi le mise nelle mani una moneta d’argento ravvolta in un pezzo di carta, affinchè la mattina avesse il piacere d’una sorpresa. La mattina la trovammo in mezzo alla piazza che singhiozzava disperatamente, mostrando una mano insanguinata: qualcuno, graffiandola, le aveva strappato la moneta. Tre giorni dopo la incontrai, a cavallo a un asino, tutta in lagrime, sostenuta da due soldati, seguita da una turba di ragazzi che le davan la baia. Qualcuno mi disse che la portavano all’ospedale. Non la rividi che ieri addormentata accanto al carcame d’un cane, più fortunato di lei.

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      So finalmente chi sono questi uomini biondi dalla faccia di malaugurio, che passandomi accanto per le strade appartate mi gettano uno sguardo in cui pare che scintilli la tentazione dell’omicidio! Sono quei Rifani, berberi di razza, che non hanno altra legge che il loro fucile, che non riconoscono nè caid nè magistrato; i pirati audaci, i banditi sanguinarii, i ribelli eterni che popolano le montagne della costa da Tetuan alla frontiera algerina; che non riuscirono a domare nè i cannoni dei vascelli europei nè gli eserciti del Sultano; gli abitanti, in fine, di quel Rif famoso, dove nessun straniero può mettere piede che sotto la salvaguardia dei santi e dei sceicchi; a cui si riferiscono ogni sorta di leggende paurose; e i popoli vicini ne parlano vagamente come d’un paese lontano e inaccessibile. Se ne vedono di frequente per Tangeri. Son uomini alti e robusti; molti vestiti d’una cappa oscura, ornata di nappine di vario colore; alcuni col viso segnato di rabeschi gialli; tutti armati di fucili lunghissimi, di cui portano la guaina rossa attorcigliata intorno alla fronte in forma di turbante; e vanno a gruppi, parlando a voce bassa, col capo chino e gli occhi all’erta, come drappelli di bravi che cerchino la vittima. E appetto a loro gli Arabi più selvaggi mi paiono amici d’infanzia.

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      Eravamo a desinare, a notte fitta, quando risonarono alcune fucilate nella piazzetta. Si corse fuori, e si vide ancora, da lontano, un bizzarro spettacolo. La stradetta che conduce alla porta del Soc di Barra era rischiarata, per un buon tratto, da grandi fiaccole, che apparivano al disopra delle teste della folla, intorno a qualcosa che pareva una cassa, posta sulla groppa d’un cavallo; e questa enimmatica processione andava innanzi lentamente, accompagnata da una musica malinconica, da un canto strascicato e nasale, da fucilate, da grida stridule, da latrati di cani. Rimasto solo in mezzo alla piazza, stetti qualche minuto almanaccando che cosa potesse significare quell’apparato lugubre, se in quella cassa ci fosse un cadavere, un condannato a morte, un mostro, un animale destinato al sacrifizio; e in quell’incertezza mi prese un senso di ribrezzo, che mi fece voltar le spalle e tornare a casa pieno di tristi pensieri. Un minuto dopo sopraggiunsero gli amici, ed ebbi da loro la spiegazione dell’enimma. Dentro la cassa v’era chiusa una sposa, e la gente intorno erano i parenti che la portavano a casa del marito.

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      È passata per la piazzetta una turba d’arabi, uomini e donne, preceduta da sei vecchi che portavano sei grandi bandiere di colori diversi, e tutti insieme cantavano ad alta voce non so che preghiera, con un accento supplichevole ed un aspetto triste, che mi fece senso. Domandai: mi si disse che chiedevano ad Allà la grazia della pioggia. Li seguitai, andavano alla moschea principale. Non sapendo che qui è rigorosamente proibito ai cristiani di metter piede nelle moschee, quando fui davanti alla porta, feci l’atto d’entrare. Un vecchio arabo mi si slanciò contro e borbottando con voce affannata qualcosa che interpretai per:—Che cosa fai, disgraziato!—mi spinse indietro coll’atto di chi rimova un fanciullo da un precipizio. Mi dovetti dunque contentare di vedere dalla strada le arcate bianche del cortile, non dolendomi però gran fatto, dopo aver visto le gigantesche moschee di Costantinopoli, d’essere escluso da quelle di Tangeri, prive d’ogni aspetto monumentale, fatta eccezione dei minareti. Ma nè anco i loro minareti,—grosse torri quadrate od esagone, rivestite di mosaici di molti colori, e sormontate da una torricina a tetto piramidale,—valgono i minareti bianchi e leggerissimi che si alzano al cielo come smisurate antenne d’avorio dalla sommità delle colline di Stambul. Mentre stavo là guardando nel cortile, una donna, di dietro alla fontana delle abluzioni, mi fece un atto colla mano. Potrei lasciar credere che fosse un bacio; ma era un pugno.

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      Son salito alla Casba, o castello, posto sopra una collina che domina Tangeri. È un gruppo di piccoli edifici circondati di vecchie mura, dove stanno le autorità, i soldati e i prigionieri. Non ci trovai che due sentinelle assonnate, sedute davanti a una porta, in fondo a una piazzetta deserta, e qualche mendicante disteso in terra, saettato dal sole e divorato dalle mosche. Di lassù si abbraccia collo sguardo tutta Tangeri, che si stende ai piedi delle mura della Casba e risale su per un’altra collina. L’occhio rifugge quasi da tutta quella bianchezza purissima, macchiata soltanto qua e là dal verde di qualche fico imprigionato fra muro e muro. Si vedono i terrazzi di tutte le case, i minareti delle moschee, le bandiere delle Legazioni, i merli delle mura, la spiaggia solitaria, la baia deserta, i monti della costa, uno spettacolo vasto, silenzioso e splendido, che rasserenerebbe la più cupa nostalgia. Mentre stavo contemplando mi riscosse una voce acuta e tremula, d’un’intonazione strana, che veniva dall’alto. Mi voltai, e solamente dopo aver un po’ cercato, scopersi sulla cima del minareto d’una moschea della Casba una piccola macchia nera, il muezzin, che invita i fedeli alla preghiera lanciando ai quattro venti il nome di Allà e di Maometto. Poi tornò a regnare tutt’intorno il silenzio malinconico del mezzogiorno.

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      Farsi cambiare il danaro, in questo paese, è una calamità. Ho dato una lira francese al tabaccaio perchè mi rendesse dieci soldi. Questo moro feroce aprì una cassetta e cominciò a pigliare e a buttar sul banco manate di monetaccie nere e sformate, finchè ce ne fu un mucchio da farne il carico ordinario d’un facchino, diede una contata alla lesta e stette ad aspettare che me le intascassi.—Scusate—gli dissi, cercando di ripigliar la mia lira;—non sono abbastanza robusto da poter comprare nella vostra bottega.—Poi m’accomodai pigliando altri sigari e portando via una tascata soltanto di quel tritume di danaro per farmi spiegare che cosa fosse. È una moneta chiamata flu, di rame, la cui unità val meno d’un centesimo e va ancora scemando ogni giorno di valore, perchè il Marocco n’è inondato, ed è inutile aggiungere a qual fine l’abbia profusa e la profonda il Governo, quando si dica che il Governo paga con questa moneta e non riceve che oro ed argento. Ma ogni male ha il suo bene, e questi flù, questo flagello del commercio, hanno la inestimabile virtù di preservare i marocchini da molti malanni, e in specie dalla jettatura, in grazia del così detto anello di Salomone, una stella di sei punte che v’è impressa da una parte; immagine dell’anello vero chiuso nella tomba del gran Re, il quale governava con esso i buoni e i cattivi genii.

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      Non

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