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una stanza che ci attende al commissariato locale,” disse Shelley. “Il poliziotto con cui ho parlato mi ha garantito che il caffè fa schifo, ma anche che l’aria condizionata è completamente inutile, quindi abbiamo un sacco di cose da aspettarci.”

      “Fammi strada,” rispose Zoe, desiderando almeno trovare divertente quella battuta per indorare la pillola.

      CAPITOLO SEI

      Con un sospiro, Zoe scelse una sedia e vi si afflosciò, allungandosi per prendere il primo dossier che era stato messo lì a loro disposizione.

      “Grazie, Capitano Warburton, apprezziamo davvero il suo aiuto,” Shelley si trovava vicino alla porta e stava facendo il solito, ottimo lavoro con le chiacchiere e i convenevoli che Zoe non aveva mai gradito.

      Era bello far parte di una squadra che funzionava. Una squadra in cui ogni componente aveva i propri specifici ruoli. Shelley capiva le persone tanto quanto Zoe capiva i numeri, e sebbene nessuna delle due riuscisse davvero a comprendere l’opera dell’altra, almeno veniva reso tutto più facile.

      Dopo una buona ventina di minuti trascorsi a studiare i dossier, non si erano ancora avvicinate a nulla. Nonostante i locali avessero raccolto diverse dichiarazioni da parte dei familiari e ottenuto molte più informazioni rispetto ai dossier iniziali che avevano esaminato in aereo, nulla di tutto questo sembrava essere utile. Zoe lanciò sul tavolo i fogli che aveva in mano con un lamento di frustrazione.

      “Perché non c’è mai un collegamento semplice?”

      “Perché, in quel caso, i locali riuscirebbero a risolvere il caso da soli, e noi rimarremmo senza lavoro,” rispose in modo calmo Shelley. “Ripassiamo quello che sappiamo. Parliamone. Magari scatterà qualcosa.”

      “Ne dubito molto. Quei due erano così diversi.”

      “Beh, iniziamo proprio da questo. John era un ragazzo in salute, giusto? Un fanatico della palestra.”

      “Il suo coinquilino ha detto che trascorreva quasi tutto il suo tempo libero ad allenarsi. Era in ottima forma.”

      “Ed era anche un bravo ragazzo.”

      Zoe fece una smorfia. “Donava soldi in beneficienza e dava una mano in una mensa del povero la domenica. Non vuol dire per forza che fosse un bravo ragazzo. Moltissime persone fanno cose del genere perché nascondono un lato oscuro.”

      “Ti stai arrampicando sugli specchi,” disse Shelley, scuotendo la testa. “Non ci sono altri significati nascosti. Aveva uno stile di vita pulito. Niente droghe, né condanne, neanche un rapporto disciplinare al lavoro.”

      “Lei invece era l’opposto.” Zoe diresse quest’ultima affermazione verso una fotografia di una raggiante Callie Everard, che sorrideva alla fotocamera e aveva in mano una bottiglia di birra mentre un ragazzo dall’aria ubriaca le metteva il braccio attorno alle spalle.

      “Beh, forse no. Ok, ha avuto qualche problema di droga quando era più giovane. Ma è entrata e uscita dalla riabilitazione quando aveva ventitre anni, ha completato il percorso e ha perso il vizio. Era pulita da un paio di anni. Si è rimessa in sesto.”

      Zoe prese in considerazione questo aspetto. “Forse potrebbe essere un indizio. Entrambi con sane abitudini, anche se soltanto di recente.”

      “A cosa stai pensando? A una sorta di culto della forma fisica o cose del genere?” domandò Shelley.

      Zoe le rivolse uno sguardo cupo.

      “Beh, è possibile,” disse Shelley. “Guarda tutta quella roba delle cyclette. E quel culto dell’auto-aiuto, quello che convinceva con l’inganno le donne a fare sesso e donare soldi al fondatore.”

      “Suppongo tu abbia ragione.” Zoe non conosceva i dettagli, ma aveva sentito parlare dei casi. Shelley aveva ragione, in un certo senso. Non si sa mai cosa potrebbe esserci sotto la superficie fino a quando non si scava abbastanza a fondo da scoprirlo.

      Sollevò le foto delle due vittime, cercando eventuali analogie. Era sempre frustrante imbattersi in casi del genere. In presenza di una sola vittima, era possibile limitarsi ad analizzare le prove, concentrarsi su ogni piccolo dettaglio di quell’unica persona. Quando c’erano tre o più vittime, era possibile avere a disposizione abbastanza dati per definire uno schema. Per capire che l’assassino si stava muovendo in una determinata direzione, oppure stava soltanto prendendo di mira le persone bionde di altezza inferiore a un metro e settantotto centimetri, o che magari presentavano un certo tic.

      Ma quando le vittime erano due, la faccenda si complicava enormemente. Non era possibile mettere insieme le cose nello stesso modo. Un’analogia in termini numerici poteva anche rivelarsi soltanto una coincidenza che sarebbe stata demolita dal ritrovamento di un altro cadavere. Magari in un primo momento si notava che le età delle vittime erano numeri primi, soltanto per scoprire in seguito che quell’aspetto non aveva alcun senso. Era impossibile capire cosa fosse importante e cosa invece fosse soltanto fumo negli occhi, gettato dal proprio cervello e privo di qualsiasi proposito.

      “C’è una cosa che hanno in comune,” disse Zoe, battendo l’indice sulle foto. “I tatuaggi. Dowling aveva una tigre sul bicipite sinistro, Everard una rosa sulla coscia destra, tatuata a puntini. Inoltre, stava andando a trovare un suo amico per farne un altro.”

      Shelley scrollò le spalle. “Credi davvero sia un collegamento? Tantissime persone hanno dei tatuaggi.”

      Zoe stava sfogliando altre foto, notando ulteriori segni su zone di pelle che erano visibili in diversi scatti. Erano stati presi quasi tutti dai profili social delle vittime, e sembrava che entrambi fossero orgogliosi dei propri tatuaggi, al punto da metterli in mostra. C’era un significato in tutto questo? “Non avevano soltanto un tatuaggio. Guarda. Entrambi ne erano pieni. Dowling aveva quasi tutta una gamba tatuata, fino al piede. Ed Everard, qui, sulla schiena e sull’addome.”

      “Non sono ancora sicura che significhi qualcosa. È soltanto una moda di questo periodo.”

      Zoe arricciò il naso. “Una moda?”

      “Già. Non ci hai mai fatto caso? Un sacco di ventenni si tatuano, oggigiorno. Coprono tutto il corpo. Persino la faccia e le mani. Anche moltissime celebrità lo hanno fatto. Justin Bieber, Ariana Grande, conosci? Rapper, cantanti, sportivi. È considerata una cosa figa.”

      “Tatuare la faccia e le mani sembra un’idea decisamente idiota,” disse Zoe, facendo una smorfia. “Immagina di non poter mai più nascondere un errore che hai fatto da giovane, quello di scegliere qualcosa di stupido da imprimere per sempre sul tuo corpo.”

      “Deve esserci un qualche tipo di collegamento tra di loro,” brontolò Shelley. “Scommetto che ha a che fare con le loro vite private. Forse entrambi frequentavano le stesse persone. Magari avevano in comune un bar o un club, un gruppo di amici, un cugino che conosceva un cugino. Forse, senza saperlo, avevano entrambi partecipato a uno stesso evento. Dobbiamo soltanto continuare a scavare fino a quando non ci arriviamo.”

      Zoe annuì. “Bene, allora, ho capito da dove dovremmo iniziare.” Raccolse il dossier di Callie Everard e prese nota dell’indirizzo che vi era indicato. “L’amico che stava andando a trovare: Javier Santos.”

      CAPITOLO SETTE

      Zoe gironzolò nel piccolo studio, osservando le illustrazioni e i disegni che ricoprivano ogni possibile superficie. Spettava a qualcuno che aveva più interesse di lei per l’arte affermare se Javier avesse o meno del talento. Il fatto che fosse produttivo, tuttavia, era fuori discussione.

      “Questi sono tutti per tatuaggi?” domandò, esaminando i disegni.

      “Sì, certo.” Javier annuì. “In gran parte sono stati utilizzati. Comunque, posso prepararvi qualcosa di originale, se lo desiderate.”

      Zoe si girò di scatto a guardarlo per capire se stesse scherzando. Sembrava serio, il che era peggio.

      “Non penso proprio,” disse lei, accontentandosi di impiegare queste semplici parole, sperando che lui non insistesse. Non le sarebbe piaciuto rovinare l’interrogatorio prima ancora di iniziarlo, dicendogli apertamente

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