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non era un ateo, ma si ricusava tuttavia alla dogmatica del Cattolicismo; in quella sua specie d'incredulità razionale vedeva anzi un benefizio pei popoli, una guarentigia di tolleranza per tutte le sètte, non essendo egli dominato da alcuna. E l'uomo che a Sant'Elena leggeva nel Vangelo il discorso della Montagna, confessandosi “rapito dalla purezza, dalla sublimità, dalla bellezza di quella morale„, dopo aver detto: “tutto proclama l'esistenza d'un Dio„, soggiungeva ancora: “ma tutte le religioni sono evidentemente figliuole degli uomini„. E nondimeno, giunto al consolato, s'affrettava a ristabilire quella dei padri, che era per lui “l'appoggio della sana morale, dei veri principii, dei buoni costumi„. Un altro argomento gli soccorreva, in materia di religioni: “L'inquietudine degli uomini è tale, che lor bisogna il vago, il maraviglioso, offerto da esse„. E qualcuno avendo osato dirgli che sarebbe potuto finire devoto, “no, rispondeva, e me ne duole, perchè sarebbe un grande conforto… Il sentimento religioso è così consolante, che il possederlo è un benefizio celeste. Di quale aiuto non mi sarebbe egli qui? Che potere avrebbero più uomini e cose su me, se, accettando da Dio i miei rovesci, i miei dolori, ne attendessi ricompensa in una vita futura?„

      Qui si disegna già l'uomo che fra cinque anni morente accoglierà i conforti d'una religione positiva. Chi lo ha visto così sincero, intenderà come abbiano liberamente fruttificato quei germi nella solitudine dei colloqui con Dio. Ma nell'ordine politico, ai giorni della potenza suprema, abbiamo in Napoleone un filosofo alla maniera del Voltaire. Fu certo un mancamento, non aver visto prima il nodo per cui si collegano, distinguendosi, religione e politica, il regno dei cieli e il regno del mondo. Dante lo aveva trovato, nella virilità dell'ingegno suo, senza debolezze come senza ipocrisie, da uomo moderno più ancora che da uomo medievale. Ma io riconoscerò a Sant'Elena la sincerità di Napoleone, che non dubitò di mostrarsi ai posteri qual era stato davvero, Carlomagno del secolo XIX, ben diverso da quello del secolo VIII. Il suo lavoro, dopo tutto, mirava all'impero d'Occidente, attraverso la unità dell'Italia, passando sulle rovine della potestà temporale dei Papi. Al Pontefice rioffriva Avignone, toltogli col trattato di Tolentino. Appena gli nacque il figliuolo, lo stesso pensiero gli suggeriva di chiamarlo “re di Roma„, quasi complemento a quel titolo di “re d'Italia„ ch'egli stesso riteneva da cinque anni, dichiarando di non volerlo serbare per sè, poichè meditava un regno italico indipendente, che non poteva essere quello ristretto di Lombardia con la capitale a Milano. Ma quel più largo disegno andò soggetto alle vicende della potenza sua, vicende di grado, di qualità, di opportunità. Sotto il generale del Direttorio, al caldo delle vittorie sue, si erano formate parecchie repubbliche, la Ligure, la Piemontese, la Cisalpina, la Romana, la Partenopea: sotto il primo Console, i fasci un po' sparsi incominciavano a stringersi: sotto l'imperatore dei Francesi (2 dicembre 1804) e re d'Italia (16 maggio 1805); per quasi spontanea domanda del doge di Genova, la Liguria “primo teatro delle sue vittorie„ era annessa all'Impero, col Piemonte, con Parma e Piacenza, unendosi tosto Piombino e Lucca in ducato per la sorella Elisa. Il generale del Direttorio aveva dato all'Austria la Venezia, con Istria e Dalmazia, per ripigliarle imperatore, dopo Austerlitz, nel trattato di Presburgo (26 dicembre 1805); e subito cacciati i Borboni, Napoli e Sicilia eran dati in reame a suo fratello Giuseppe, mentre Elisa era innalzata granduchessa d'Etruria, e Paolina creata duchessa di Guastalla. Strana mobilità di propositi, a cui s'aggiunse il trapasso di Napoli al cognato Murat: ma di questi mutamenti, a tutta prima indispensabili, come la cessione del Veneto all'Austria col trattato di Campoformio, e la ripresa del dono nel trattato di Presburgo, dopo le vittorie di Austerlitz, ha dato lume egli stesso nelle Memorie, dettate al maresciallo Bertrand. “Dacchè la prima volta apparii in quelle contrade, sempre ebbi in pensiero di creare indipendente e libera la nazione italiana. Le annessioni di varie parti della penisola all'Impero non erano se non temporanee; miravano solo a rompere le barriere che separavano i popoli, ad accelerare la loro educazione, per operarne poi la fusione. Io avrei reso l'indipendenza e la libertà a quasi intiera l'Italia.„

      Il “quasi intiera„ apparisce sacrifizio ad interessi politici, o concessione graziosa alla patria dell'amanuense, poichè veramente non s'intende come non potesse far opera compiuta, essendo egli padrone di tutto: o forse escludeva Nizza e la Corsica, considerate come avamposti di Tolone e Marsiglia. Dopo tutto, a tale distanza dai fatti, e senz'altra via d'induzione, è ozioso almanaccare. Resta che da principio la penisola rimase nell'equilibrio instabile d'una federazione di stati, con persone della sua famiglia, imperanti da Milano a Napoli, lui re d'Italia, e un re di Roma aspettato. Quella trovata del “re di Roma„ fa intender meglio l'abbozzo della politica sua. Che forse pensò egli un'Italia e un Impero romano, sotto la tutela della Francia, e col centro fuori d'Italia? Per un grand'uomo imbevuto di antichità, questa tesi invertita non pare ammissibile. Sarebbe stata, se mai, una combinazione provvisoria, fin ch'egli fosse vissuto. Lui morto, chi ereditava l'impero? Non già l'imperator dei Francesi, ma il re di Roma, per cui fatto e nome l'impero diventava Romano. Così per via s'acconciavan le some; in due o tre generazioni, cancellata la vernice straniera, dato maggior lustro all'origine italiana dei Bonaparte, il colpo era fatto. Così egli avrebbe servita l'Italia, meglio di Carlomagno, ch'era un Franco, e aveva gradito d'incoronarsi a Roma per regnar poi da Acquisgrana; laddove egli s'era incoronato a Parigi, nella presenza del Papa, per grande atto decorativo, ma il figliuol suo procedeva virtualmente da Roma, e con lui si sarebbe per corso naturale di cose sollevata di tanto la condizione d'Italia. Ah, il condottiero medievale non aveva fatto mica un mal sogno!

      IV

      E non io lo faccio per lui, nè gl'impresto (che sarebbe irriverente) un pensier del mio capo. Sentite ciò ch'egli stesso diceva nel 1812: “Non crediate che io voglia innovar nulla in religione. Non sono un Abdallah Menou (alludeva, così parlando, ad un suo generale in Egitto, che s'era fatto musulmano per riuscir meglio accetto agli Arabi, come successore del Kléber); sarò un Costantino, non docile temporalmente, nè scismatico nella fede. Se tengo Roma per mio figlio, darò Nostra Donna al Papa; ma Parigi sarà levato così alto nella ammirazione degli uomini, che la sua cattedrale diverrà naturalmente quella del mondo cattolico. Questa è la ragione segreta, non la contradizione di ciò che ho fatto; è il Concordato, ingrandito come l'Impero. Ma per aver così piena ragione dalla Chiesa, occorre aver vinto ancor più nel cospetto degli uomini.„

      Sogno, lo ripeto, ma grande, e d'un Italiano che sentendosi tale non dubitò di confessarlo ad ascoltatori Francesi, nei solenni colloquii di Longwood; ove, parlando de' suoi primi trionfi, ne esponeva le ragioni in tal forma: “L'istessa mia origine straniera, contro la quale si sono scalmanati in Francia, mi fu di gran prezzo, poichè essa mi fece considerar cittadino da tutti gl'Italiani, agevolando di molto i miei successi in Italia. I quali, come furono ottenuti, indussero a cercar da per tutto le circostanze della nostra famiglia, caduta nell'oscurità da gran tempo. A saputa di tutti gl'Italiani, essa aveva sostenuta una gran parte tra loro; ridivenne ai loro occhi, al loro sentire, una famiglia italiana; tanto che, quando si trattò di sposare la mia sorella Paolina al principe Borghese, fu una voce sola, a Roma e in Toscana, in quella famiglia e tra le sue alleate: sta bene, è cosa fatta tra noi, è una delle nostre casate. Più tardi, quando si trattò della mia incoronazione a Parigi, per mano del Papa, quest'atto, importantissimo come gli eventi mostrarono, incontrò gravi intoppi. Il partito austriaco, nel Conclave, si era risolutamente opposto; il partito italiano la vinse, aggiungendo alle ragioni politiche questa piccola considerazione d'amor proprio nazionale: “dopo tutto è una famiglia italiana, questa che noi imponiamo ai Barbari, per governarli; saremo così vendicati dei Galli…„ Dubito che ciò sia stato detto o pensato in Conclave; ne dubito soprattutto per l'accenno ai Barbari, che da Carlomagno in poi non eran più tali, e alla vendetta sui Galli, che era stata fatta, se mai, diciotto secoli innanzi, dalle armi di Cesare; ma è importante per me che in tal guisa abbia parlato della sua italianità Napoleone a Sant'Elena, nella grande ora della toilette pour la postérité.

      Aver fatto grandi cose è bello, sovranamente bello, e accade a pochi. Ma i pochi che le han fatte, sono anche più famosi per averne pensate di maggiori. A cogliere il segno lontano, si vuol porre più alta la mira; e spesso vien meno l'arco, o la corda si spezza. Noi, gloriandoci di quell'Italiano, gli siam grati di aver fatto per la sua patria d'origine un sogno maraviglioso. Non ebbe tempo a mutarcelo in realtà, nè a consolidare la sua stessa fortuna. Ercole, combattendo con l'idra dalle sette teste sempre rinascenti, non venne a capo dell'impresa se non recidendole tutte d'un

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