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Origini dei Comuni successero le Origini della Monarchia in Piemonte ed a Napoli. Dovea parlare del Piemonte Giuseppe Giacosa; ma, impeditone da malattia, fu sostituito egregiamente dal Bonfadini che ebbe un'altra volta liete e cordiali accoglienze. Di Napoli lesse più tardi, quando fu rimesso in salute, Ruggiero Bonghi che svolse il tema al solito con molta e soda dottrina.

      Le origini del Papato e del Comune di Roma dettero modo ad Arturo Graf, al poeta di Medusa, all'autore del Diavolo, professore nell'Università di Torino, di mostrare com'egli sappia accoppiare una straordinaria cognizione dei fatti con una non comune facilità d'esposizione. Pio Rajna, la cui dottrina di filologo è pari soltanto alla nobile rigidità del carattere, parlò delle Origini della lingua Italiana con autorità di scienziato e con garbo di artista, rendendo accessibili le più difficili ed intricate questioni. A Francesco Schupfer le Università Italiane ed il Diritto dettero agio di esporre molte nuove e sapienti vedute intorno al grave e importante argomento. Il professor Felice Tocco, parlando da maestro degli Ordini religiosi e dell'eresia, confermò la sua fama di pensatore originale e profondo e di geniale espositore.

      Le due letture che seguirono, quella del professore Adolfo Bartoli sulle Origini della Letteratura Italiana e quella di Enrico Panzacchi, furono, con l'altra del Villari, giudicate bellissime fra le più belle di questa serie. Il Bartoli lesse, con limpida dizione, alcune splendide pagine che compendiano mirabilmente quant'egli ha scritto in molti e pensati volumi. Il Panzacchi con una calda improvvisazione trattò delle Origini dell'arte nuova, e il poeta bolognese non fu mai come quel giorno ispirato ed eloquente. Quando ebbe finito gli fu fatta una vera ovazione, e le signore lo circondarono come volessero rapirlo.

      Una bella lettura del prof. Giacomo Barzellotti sulla Filosofia e le scienze nel periodo delle origini, in cui con forma chiara ed artistica si spiegano i più astrusi problemi onde le menti umane erano allora affaticate, e un meraviglioso Epilogo di tutte le dodici letture, nel quale Ernesto Masi dimostrò d'essere ad un tempo pensatore profondo e dicitore elegante, chiusero la Prima serie dedicata agli Albori, il 19 di aprile.

      Quel giorno un cartoncino stampato con tutti i lenocinii dell'arte e distribuito alle ascoltatrici e agli uditori plaudenti, annunziava per l'anno venturo una nuova serie di letture sulla Vita Italiana nei secoli XIII e XIV. Il roseo manifesto porta anche la firma del marchese Carlo Ginori chiamato, per le sue benemerenze, a far parte della Società promotrice di pubbliche letture.

      Così andò, e – lasciatemelo dire – andò proprio bene!

Guido Biagi.

      PRELUDIO

DIOLINDO GUERRINI

      Quando, egregie signore e signori, quando l'autore ha compiuto l'opera, allora comincia a pensare alla prefazione. Così il signore Iddio, dopo aver creato dal nulla l'Universo, pensò alla prefazione – all'uomo – e lo creò ultimo, a propria imagine e somiglianza. Ma il pubblico, che non è iniziato ai misteri della tecnica d'arte, e ignora, per fortuna sua, con quali artifizi si costruiscono un libro o un dramma musicale, crede ingenuamente che l'opera sia stata pensata ed eseguita in quella stessa successione di tempi e di idee in cui la trova disposta. Crede cioè che l'autore abbia cominciato dal principio e finito colla fine; e che la prefazione o il preludio, che stanno sul limitare del libro o del dramma, sieno stati i primi, in ordine cronologico, ad esser composti.

      E il buon pubblico erra. Che se, del resto, ragionasse soltanto per analogia, si convincerebbe subito che una gran parte delle faccende di questo mondo, contro ogni canone apparente di logica, non cominciano dal principio. Sembra un paradosso, ma è un fatto di tutti i giorni. Quante spese, per esempio, fatte prima d'avere i denari! Tutta la teoria del credito è fondata appunto su questa facoltà particolare dell'uomo di poter cominciare dalla fine. Quanti dottori esercitano la professione prima d'averla studiata; quanti sonetti si cominciano a scrivere dall'ultimo verso, quanti romanzi si cominciano a leggere dall'ultimo capitolo. Quante affermazioni prima della certezza, quanti giuramenti prima della convinzione, quante nozze prima dell'amore! L'uomo è un essere perfettamente illogico; il che lo distingue dai bruti.

      Nel caso nostro poi è legge di natura, fatale come quella della gravità, che la prefazione debba esser fatta dopo il resto. Nella prefazione l'autore riassume il contenuto dell'opera, indica l'ordine, espone il metodo seguito e passa in rassegna le opinioni de' suoi colleghi sullo stesso argomento. Dimostra a luce meridiana, ciò s'intende, che tutti i colleghi e predecessori ebbero sempre torto marcio; pone delicatamente in dubbio lo stato delle loro facoltà mentali, la loro fedina criminale e il loro stato di famiglia, e dopo di averli spesso gratificati di molti ma non nobili titoli, passa a dimostrare la propria superiorità, la virtù propria, il proprio genio. Ora tutte queste operazioni espositive non possono esser condotte a bene che ad opera compiuta, quando l'autore ha finalmente un'idea chiara di quel che voleva fare e di quel che gli è riuscito di fare. Se la ciambella gli riuscì col buco egli la trasforma in altare e vi erige sopra un tempio nella prefazione, dove offre a sè medesimo la mirra e l'incenso, e fa la ruota in faccia agli ammiratori e tempera le saette per gli eterodossi. Se la ciambella poi, non che col buco, riuscì senza la minima traccia di soluzione di continuità, allora l'autore, come potete credere, fa precisamente lo stesso, si erige l'altare, si fabbrica il tempio e gratifica sè stesso dei più puri e più grati incensi della rettorica. Poichè, dal giorno in cui fu trovata questa meravigliosa e matta arte dello scrivere, non fu mai scrittore persuaso di aver fatto un brutto libro. Che se mai ne nascesse un solo, in verità vi dico, che in quel giorno il sole si oscurerà perchè sarà prossimo il giudizio universale.

      Ad ogni modo, per tornare in carreggiata, qualunque sia il genere o la fortuna dell'opera, resta fissata questa legge che la prefazione si fa per l'ultima.

      E se non bastassero le prove addotte, basterebbe pensare un poco al preludio di un dramma musicale. Ivi il maestro espone o riassume i motivi principali dell'opera, quasi li racconta ad uno ad uno al pubblico, il quale per lo più non è loro avaro di applausi d'incoraggiamento in principio, quanto è prodigo poi di energici fischi di scoraggiamento alla fine. Ma se l'infelice maestro non avesse già finita l'opera, come potrebbe accennarne i motivi principali nel preludio? È dunque provato che l'esordio si fa dopo la conclusione: il che era da dimostrare.

      Da quel che ho detto fin qui, risulta anche provata un'altra affermazione non meno inutile, che cioè la prefazione è una instituzione antichissima.

      È chiaro infatti che, le leggi naturali non avendo mai subito alcun mutamento, gli autori della più remota ed incredibile antichità debbano aver avuto le stesse passioni e sofferti gli stessi bisogni che questi moderni. Intendo rispetto alle relazioni col pubblico, e non al contenuto delle opere. Non so se come tutte le invenzioni anche questa ci venga dalla China. Certo se lo merita. Ma ad ogni modo quel remotissimo figlio del Cielo che primo commise una prefazione, fu tratto dal desiderio di parlare di sè, della sua opera e di propiziarsi il lettore, riuscendo come sempre all'effetto contrario, perchè è vero quel che dice il Pascal che l'io è odioso.

      Il costume latino, anzi più precisamente italiano, vorrebbe qui che io vi sprofondassi meco nelle voragini della più oscura erudizione, in cerca delle origini della prefazione. Avrete notato infatti che presso di noi non si scrivono poche pagine sopra le cose meno importanti del mondo, se, col pretesto di illuminar bene il lettore, non si risale alle origini del genere umano. I più discreti si contentano della Bibbia. Molte volte vi sarà capitato in mano un opuscolo che parla di un quadro, di un coccio di maiolica o di un arazzo, e avrete visto che una buona metà è spesa a ricordarvi le pitture degli Egizi, i vasi degli Etruschi, e le tele di Aracne. L'autore vi fa subito capire che vi stima ignoranti e v'insegna, bontà sua, che Jubal inventò la musica e Tubalcain la metallurgia. Gli atti e le memorie delle Accademie storiche od archeologiche, ora quasi esclusivamente consacrate allo studio assiduo delle pentole e dei pentolini storici e preistorici, primeggiano specialmente in questo comodo genere di pedanteria. È incredibile come l'uso delle pentole fosse comune presso i nostri lontani progenitori e come fosse grande la malizia loro nel nasconderle sotto terra per fornir materia agli atti accademici; ma è più incredibile ancora l'estensione e la profondità che ha preso ai nostri giorni questa scienza dei pentolini, per cui gli archeologi moderni, dopo aver esposto tutta la storia

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