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Gli albori della vita Italiana. Various
Читать онлайн.Название Gli albori della vita Italiana
Год выпуска 0
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Автор произведения Various
Жанр История
Издательство Public Domain
Questa mutazione di famiglia dinastica non impedisce che rimangano, sotto i nuovi principi, cogli antichi poteri, i rappresentanti degli antichi regimi.
Già i Longobardi avevano destinato un Duca a governare la città; e questo teneva il suo tribunale in un palazzo apposito, che si chiamava la curia del Duca, il cui nome, corrotto, vive ancora in una delle località milanesi più note, il Cordusio. I Franchi vi sostituirono un Conte, o piuttosto dei Conti, poichè sminuzzarono il territorio milanese e divisero dalla città i circondari rurali, di cui ciascuno ebbe il suo Conte, e si chiamarono a poco a poco il contado. Poi venne l'epoca della maggiore preponderanza degli arcivescovi; i quali, assenziente l'imperatore Germanico, si sostituirono ai Conti nel governo temporale delle città murate e degli abitanti immediatamente finitimi, distinti allora, per rispetto a quella sacra dominazione, col nome di Corpi santi.
Senonchè l'appetito veniva anche allora col cibo. L'arcivescovo di Milano, vistosi divenuto quasi un monarca, lottò coi monarchi, e pretese aver egli facoltà di consacrare quei principi da cui veniva poi investito dell'autorità sua. Indi la ragione di nuove lotte e di nuove incertezze nella sovranità. Si cominciò a distinguere, nella stessa persona, la qualità d'Imperatore Romano da quella di Re d'Italia. A Roma si otteneva la corona imperiale dal Papa; la corona reale doveva ottenersi a Milano dal successore di Ambrogio. Naturalmente, se questi Imperatori erano forti, combattevano le pretese dell'arcivescovo; se erano deboli, le subivano. E vediamo infatti che nell'876 Ansperto da Biassono presiede in Pavia una Dieta di vescovi e di conti, che elegge a re d'Italia Carlo il Calvo, già incoronato a Roma. E nel 1027, Corrado il Salico riconosce esplicitamente questo nuovo diritto, dicendo in Roma ai prelati che assistevano all'incoronazione: «sicut privilegium et Apostolicae Sedis consecratio imperialis, item Ambrosianae Sedis privilegium est electio et consecratio regalis2.»
A Milano poi – come, del resto, in ogni altra città considerata sotto l'alto dominio feudale – la giurisdizione del principe si esercitava a periodi intermittenti, mediante magistrati speciali, eletti in ogni occasione dal principe stesso, e che passavano sotto la comune denominazione di missi dominici. Era specialmente affar loro amministrar la giustizia, sedere arbitri fra le contese private dei cittadini, reprimere i violenti, difendere, dicevasi, i deboli. In ciò la loro autorità s'intralciava con quella dei duchi, dei conti, dei vescovi, e le decisioni contradditorie aumentavano le amarezze e gli sdegni. Nè questi missi dominici scendevano sempre dalle Alpi a portare la parola imperiale. Più volte quest'autorità si delegava dall'Imperatore a un conte, all'arcivescovo, a questo o quell'altro patrizio importante della città.
Che poi questi giudici avessero, indipendente da ogni altra, la forza necessaria per far eseguire i loro giudicati, non appar chiaro dai documenti dell'epoca. Se le parti s'acquietavano, il giudice imperiale poteva dirsi fortunato; se non s'acquietavano, chi aveva più forza si sottraeva agli obblighi imposti, e la sentenza non eseguita diventava un disordine, qualche volta un tumulto di più. A buon conto, per le uccisioni, che erano pur troppo allora i delitti più frequenti e più comuni, durò lungamente in vigore una legge di Carlo Magno, conservata dai successori, mediante la quale l'uccisore poteva liberarsi da ogni noia, col tribunale, pagando il vidrigildo (wehrgeld), ossia l'ammontare del valore, a cui era stimata la persona uccisa. È facile vedere a che conseguenze poteva tirare una disposizione di così ingenua barbarie. Non erano i ricchi quelli che valevano meno, e non erano i popolani quelli che potessero permettersi il lusso di simili pagamenti.
Si aggiunga a queste cause di profondo turbamento materiale e morale l'organismo interno delle classi nobili, dei discendenti dall'antica razza conquistatrice.
Passato il primo ed aspro periodo dei duchi, di fattura longobarda, e a potere interamente dispotico, i Franchi, ai quali era toccato in sorte regno più vasto e dominazione quasi europea, dovettero moltiplicare i loro conti, e tollerare necessariamente quella maggiore suddivisione di territori e di attribuzioni che corrispondeva alla minore intensità del dominio.
Elettivi dapprima, per sola e mutevole volontà del principe, come furono generalmente tutti i titolari feudali, fino alle leggi di Corrado il Salico, i più potenti cominciarono a poco a poco a rendere la carica ereditaria nella loro famiglia. Così a Milano s'era insediata la famiglia d'Este, i cui antichi progenitori rendevano giustizia, di padre in figlio, nel palazzo ducale longobardo, la Curia ducis. E questi, o mossi da precoce sentimento d'italianità, o, più verosimilmente, dal desiderio di aumentare, a spese di un sovrano più debole, la loro autonomia, s'erano fatti sostenitori, dopo la morte di Ottone III, di quel valente e infelice Ardoino d'Ivrea, che fu, prima di Vittorio Emanuele II, l'ultimo personaggio italiano, sulla cui fronte si sia posata una corona di re d'Italia.
Così la famiglia dei conti di Milano provocò le ire di Enrico II, re di Germania, debellatore di Ardoino. Parecchi membri di essa furono arrestati e trasportati in Germania, dove seminavano germi di nuove dinastie; ed essendosi contemporaneamente innalzato il potere degli arcivescovi, questi trasmisero ad altra famiglia di loro fiducia la gerenza degli affari spettanti alla contea. Indi, l'istituzione e l'aumento di dignità dei vice-conti o Visconti, che pure a quell'epoca appaiono nella corte arcivescovile e che, succedendosi ereditariamente essi pure nell'alta intimità coi sommi prelati milanesi, mettono le basi a quella potenza che, trecent'anni dopo, manderà così estesi e così tetri bagliori.
Senonchè nè il re, nè l'arcivescovo, nè il conte avrebbero potuto reggersi frammezzo a tante incertezze di eventi e di plebi, se ai loro privilegi non avessero cercato appoggio – oseremo quasi dire complicità – nei privilegi di quella classe nobiliare, che ripeteva l'origine sua dall'aristocrazia barbarica e dal primo spartimento delle terre, fatto in odio degli antichi elementi romani.
Di lì un primo strato di altissima nobiltà cittadina, che nelle storie è chiamata dei Capitani. Non molti e potentissimi, possedevano nella città vasti palazzi e torri merlate, munite a difesa e ad offesa. Avevano clientele assai numerose, vassalli dentro e fuori le mura, tenevano squadre di armigeri, s'erano addossata la custodia delle varie porte della città. Anche in essi il feudo era divenuto ereditario, o per concessione di principe o per lunga tolleranza di usurpazione.
Ma col rapido movimento della popolazione, specialmente dopo la riforma edilizia di Ansperto, quel primo strato di aristocrazia apparve insufficiente alla sicurezza dei privilegiati. Trecentomila popolani, ormai fattisi agiati colle arti e coi commerci, non subiscono impunemente la dominazione di trecento ottimati. Questi sentirono dunque il bisogno di allargare ad altre famiglie discendenti dagli antichi conquistatori una parte dei vantaggi fino allora esclusivamente goduti dai Capitani. Il feudo aumentò di estensione, perdendo d'intensità. E così vennero costituendosi i Valvassori; nobiltà intermedia fra la plebe e i feudatari maggiori; che stavano coi Capitani, quando il popolo romoreggiava contro questo eccesso di privilegiati, ma che ai Capitani tennero più volte il broncio, perchè non potevano ottenerne quella concessione che i Capitani stessi avevano per sè carpita al supremo signore feudale, cioè la trasmessione ereditaria del beneficio. Nè qui si fermava lo sminuzzamento della classe nobiliare; poichè tra i Valvassori e la plebe sorsero i Militi; un altro stato di popolazione che s'imbrancava fra i minori privilegiati; tratti dall'amor dell'ozio che genera la prepotenza verso le classi inferiori e che di solito s'allea mirabilmente colla servilità verso le superiori.
Qual fosse, in tanto viluppo di arbitrii e di diritti, la confusione delle cose in allora, potrete agevolmente desumerla dalla confusione d'idee ch'io cortamente ho provocato nelle vostre menti con questa faticosa esposizione di poteri, di vincoli e di magistrature. Nessun altro nome infatti adopera un biografo contemporaneo, Vippone, per dipingere in pochi tratti quella situazione: «eodem tempore magna et modernis temporibus inaudita confusio facta est Italiæ…»
Pure, è proprio da quella confusione che venne una reazione di bene, od almeno di quel bene che nel più cupo medio evo era possibile
2
Arnolfo, libro II, c. III.