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i vostri insigni monumenti. Così la nostra storia prova come sia vano, sterile e oseri dire irreligioso, un ascetismo monastico orientale, che si consuma ne' suoi malaticci idealismi, e come, alla sua volta, conduca a ruina una sete di lucro, che non si temperi, non si legittimi e direi quasi non si purifichi in queste aure salubri della idealità. Quanto diversi, o signori, dai coloni italiani del nostro tempo, i quali, senza ideali religiosi e senza disegni di utili operosità, si avventurano in luoghi, che nè i nostri antichi apostoli, nè i concittadini di Marco Polo e di Colombo avrebbero eletto a sede di colonie. Il che dimostra appunto, perchè ci fa difetto il modo di scegliere con infallibile rettitudine di giudizî, quanto ci manchi e quanto siamo lontani dalla sana idealità e dall'avveduta operosità dei nostri maggiori. Oh! non disputavano a Venezia sulla fecondità e sull'avvenire delle grandi colonie che occupavano, come non disputavano a Genova su quelle del mar di Marmara e del mar Nero. Le opime spoglie che ne traevano non consentivano i dubbi dolorosi, che s'odono nei nostri parlamenti.

      Ma, siamo giusti, ciò che ai nostri maggiori mancava era il senso della concordia. I vicini interessi e le comuni imprese fecero scoppiare più fieri i dissidî fra Pisa, Genova e Venezia.

      Intanto da una straordinaria impresa era agitata quest'ultima città. Quando Innocenzo III tentò ravvivare la santa guerra, i crociati francesi si rivolsero, per ottenere il navilio, a Venezia. Era allora doge Enrico Dandolo, vecchio ottuagenario, a cui gli anni e la debole vista accresceano l'ardimento e l'energia; indole tenace e impetuosa e nello stesso tempo astuta e dissimulatrice. Egli accettò le proposte, ma prima di accingersi all'impresa, volle avere l'approvazione del popolo, ch'ei fe' radunare nella chiesa di San Marco, la plus belle que soit, come la chiama Goffredo di Villehardouin, uno di quei crociati. I cavalieri di Francia dalle armi corrusche, i veneti patrizî dalle vesti gravi e maestose dell'Oriente, il popolo dalle fogge variopinte, si adunarono sotto le cupole dorate dai scintillanti mosaici, fra quella strana architettura di colonne superbe sovrapposte a colonne, tra le effigie mirabili e i marmi preziosi.

      Il vecchio doge, in luogo eminente, indossava una tunica purpurea, un manto affibbiato con borchia d'oro e un corto bavero d'ermellino. Parlò Goffredo di Villeardouin pregando Venezia ad accompagnare i baroni francesi a vendicare l'onta di Gesù. La voce di quel guerriero entusiasta si alzava trionfante come un inno, ricercava le fibre più intime di quei cuori, finiva addolcendosi in una prece, nella quale passava il puro alito della fede. Allora da più di diecimila petti un grido s'alzò sotto le vôlte dorate della chiesa e il doge e i legati francesi giurarono sulle loro spade. Ma quando furono pronte le navi, non trovando i baroni di Francia, tutta la somma stabilita pel passaggio, Enrico Dandolo propose loro, in luogo di soddisfare intero il debito, di riconquistare insieme coi Veneziani la città di Zara ribellata. La proposta fu accettata, e, dopo poco tempo, Zara cadeva. Durante l'assedio si presentava ai crociati Isacco, imperatore di Costantinopoli, spodestato da un usurpatore, chiedendo aiuto per ricuperare il trono. Papa Innocenzo, che avea con ogni possa cercato d'impedire l'impresa di Zara, scagliando perfino i fulmini apostolici, ora secretamente favoriva la spedizione di Costantinopoli, vagheggiando l'unione della Chiesa anche in Grecia. Avea finito col trovare gli opportuni ripieghi sacerdotali, concludendo con un pensiero degno della politica odierna: necessitas, maxime cum insistitur opere necessario, multum et in multis excusat. E poi troppo recenti erano le greche perfidie contro la repubblica di San Marco, perchè ogni veneziano non sentisse in cuore il desiderio della vendetta. Non erano ancor vive le generazioni che aveano veduto il fedifrago imperatore gettar un giorno in carcere tutti i Veneziani, che avea potuto prendere ne' suoi stati? E il valore dei Veneti, condotti da Vitale Michiel non era stato reso impotente dalle inique arti dei Greci? E non si era tentato di perdere coll'inganno più infame lo stesso Enrico Dandolo, che in Costantinopoli avea tentato di salvare l'onore della patria? Non erano le leggi e i trattati arbitrariamente violati dalla corte bizantina? D'altra parte, e i documenti attestano ciò, il Pontefice e il Doge si accordavano nel pensiero che la sommessione di Costantinopoli potesse agevolare il conquisto di Terrasanta. Fu stabilita l'impresa e compiuta; ma poco stante, in seguito a nuove rivoluzioni e intrighi di palazzo, i crociati vennero a rottura coi Greci, e Costantinopoli fu presa per la seconda volta. Quando il gonfalone di San Marco sventolò sulle mura di Costantinopoli, i Greci fuggirono spaventati, fra il confuso rumor d'armi e di grida, unito al frastuono orrendo di urla, di gemiti, di pianti. E il Papa, plaudendo agli eventi fortunati, scriveva ai vescovi, abati e duchi dell'esercito: sane a domino factum est istud et est mirabile in oculis nostris. E dimenticò Terrasanta.

      «Dalla creazione in poi non v'ebbe più larga preda» scrisse il Villehardouin. Immense ricchezze e preziosi oggetti d'arte furono salvati nella generale rapina, e trasportati in patria dai Veneziani: quadri, statue, gemme con cui arricchirono la pala d'oro e il tesoro di San Marco, e i quattro celebri cavalli di rame dorato che, trasportati da Chio, dall'imperatore Teodosio II, a ornare l'ippodromo di Bisanzio furono posti sul pronao della basilica veneziana.

      La forza di Venezia imperava ormai sull'Oriente. All'interno potea dirsi secura, coi nuovi ordinamenti politici, per mezzo dei quali si svolgeva la sua attività, colla legge che impera e custodisce, colla concordia che fortifica e rafferma. Sottratta già da lungo tempo al popolo la dogale elezione, chiuso a chi non fosse nobile, il governo, s'era consolidato quel reggimento di ottimati, grande anomalìa fra due cose normali, il governo cioè di tutti e quello di un solo che tutto eguaglia in una comune tirannide, quel reggimento di ottimati che salvò l'indipendenza veneziana. Costituzione non certo desiderabile oggi, ma per quei tempi ammirabile, e che illuminò del suo raggio uno dei periodi più gloriosi della libertà fiorentina, quando, tenendo gli occhi fissi a Venezia, fra Girolamo Savonarola, Paolo Antonio Soderini, Francesco Valori e altri magnanimi volevano garantire la nuova indipendenza, affidando la somma delle cose ai migliori dei cittadini, ai benefiziati, e instituendo il Consiglio grande. Il tentativo fallì, poichè la tenacia del volere non fu pari all'altezza degli intendimenti.

      Delle due forti rivali di Venezia, Pisa in breve non fu più da temersi. La sua potenza s'infranse allo scoglio della Meloria e sulla bella e sventurata città aleggiò l'arte, supremo conforto. Quando l'età delle forti imprese si oscura, s'inalba luminosa quella delle arti.

      Restava Genova, nè il vessillo di San Giorgio volle per lungo tempo e a niun patto piegare dinanzi a quello di San Marco. Lunghe e accanite le guerre, brevi le tregue, per ripigliar lena a nuove battaglie, combattute con varia fortuna.

      Nel 1256, i Liguri spogliano le navi veneziane nel porto d'Acri e saccheggiano il quartier veneziano. Lorenzo Tiepolo corre alla vendetta, con gran numero di navi e coll'aiuto dei Pisani, spezza la catena del porto, preda e arde le navi nemiche, penetra nella città, incendia il quartiere dei Genovesi ed espugna il castello di Mongioia. Invano i Genovesi tentano riannodare le forze: il Tiepolo, presso a Tiro, li sbaraglia una seconda volta; poi non lungi da Acri stessa, li sconfigge nuovamente con più sanguinosa battaglia.

      Nel 1261, la gelosia ligure rialza il trono greco a Costantinopoli. Vi si oppone Venezia e ne vien nuova guerra, finita colla rotta dei Genovesi nelle acque di Trapani.

      Una fiera rivincita prese Genova a Curzola, quando, sotto il comando di Lamba Doria, un minor numero di galee vinse i Veneti condotti da Andrea Dandolo. Il Doria trasse seco a Genova 5000 prigioni. Marco Polo fra questi. Lo sfortunato ammiraglio di Venezia die' di cozzo nell'albero della sua nave e morì…

      Ma a che oggi riandare la serie di questi gloriosi delitti? Nel camposanto di Pisa, in quella dimora di morti, dove palpita tanta parte di storia italiana, stanno appese, non già trofeo di ire fraterne, ma segno perenne di fraterno affetto le catene del porto di Pisa, dai Genovesi prese e donate ai Fiorentini. Nell'affetto sereno della patria unificata, Firenze e Genova vollero restituite a Pisa quelle catene, come augurio d'invitta concordia fra le città italiane, pegno e segnacolo di un'êra novella.

      Ora una luce irradiano quei torbidi ricordi di storia italiana, luce di fraternità e di pace.

      LE ORIGINI DEL COMUNE DI MILANO

DIROMUALDO BONFADINI

      Lo studio delle origini – è bene saperlo prima di mettersi in via – rappresenta per lo spirito piuttosto una fatica che un diletto.

      La scarsità delle fonti, la cronologia difficile, l'ermeneutica capricciosa obbligano a lunghe indagini, a laboriose induzioni, per istabilire

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