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si recò effettivamente in Verona. Annunzia bensì, sempre per bocca di Cacciaguida, che

      … pria che 'l Guasco l'alto Arrigo inganni

      (cioè prima che Clemente V mandi a vuoto l'impresa di Arrigo VII)

      Parran faville della sua virtute

      In non curar d'argento nè d'affanni;

      Le sue magnificenze conosciute

      Saranno ancora sì, che i suoi nemici

      Non ne potran tener le lingue mute.

      A lui t'aspetta ed a' suoi benefici:

      Per lui fia trasmutata molta gente,

      Cambiando condizion ricchi e mendici.

      Nell'ultima profezia può ravvisarsi un'allusione agli effetti del principato che sollevava gli umili e abbassava i grandi, ma assai più oscura è la terzina che segue e che ha inutilmente affaticato l'ingegno degli interpreti:

      E portera'ne scritto nella mente

      Di lui… ma nol dirai… E disse cose

      Incredibili a quei che fia presente.

      I primi versi invece si riferiscono a fatti noti, cioè alla fastosa liberalità con cui Cangrande, rimasto solo signore di Verona nel 1311, radunava intorno a sè artisti, letterati, giullari, uomini d'arme, guelfi o ghibellini che fossero; la compagnia finì col parer anche troppa al Poeta, il quale si partì sdegnosamente da quella corte, dove (se credesi a certe leggende tramandateci dal Petrarca) la sua franchezza riuscì mal gradita. Narrasi in fatti che c'era fra gli altri un istrione procacissimo il quale con motti e con gesti osceni rallegrava assai la brigata. E Cangrande, sospettando che Dante ne fosse indispettito, gli chiese come mai un tal pazzo piacesse a tutti, e viceversa a tutti increscesse un savio come lui. Al che quegli rispose con arguta amarezza: “Perchè ogni simile ama il suo simile.„ Ed anche in altra occasione, dopo un convito, si sarebbero scambiate male parole il Poeta e il Signore esaltato dal vino. Vere o false, queste storielle ritraggono i costumi delle corti medioevali; e parimente ci dà un'idea di tal vita allegra e agitata una bizzarra frottola di Manuel Giudeo, che fu amico e ammiratore di Dante, e che dava il vanto a Verona su tutte le terre di Levante da lui visitate:

      Destrier e corsiere,

      Masnate e bandiere,

      Coraccie e lamiere

      Vedrai rimutare.

      E poi fanti che passano, bandiere che sventolano, strumenti che suonano…

      Qui vengono feste

      Con le bionde teste,

      Qui son le tempeste

      D'amore e d'amare.

      In altre strofette si descrive la più eletta compagnia che raccogliesi nelle sale del Palazzo:

      Baroni e Marchesi

      De tutti i paesi

      Gentili e cortesi

      Qui vedi arrivare.

      E vi si fa cenno di dotte discussioni che peraltro non dovevano procedere molto tranquille:

      Quivi astrologia

      Con philosophia,

      E di theologia

      Udrai disputare;

      Quivi Tedeschi

      Latini e Franceschi

      Fiamminghi e Inghileschi

      Insieme parlare;

      Fanno un trombombe

      Che par che rimbombe

      A guisa di trombe.

      Vi s'incontrano giudei, saraceni, romei, pellegrini, cantori, trovatori, falconieri, ragazzi; poveri affamati; animali domestici e selvaggi; è una corte bandita dove tutti si satollano, tutti si sollazzano di giorno e di notte, con giuochi senza fine: assai lontano crepuscolo alle raffinate eleganze onde rifulgeranno nel seguente secolo, le case e le ville medicee di Firenze, i palagi ducali di Ferrara, di Mantova e d'Urbino.

      E questo è 'l signore

      Di tanto valore

      Che 'l suo grande honore

      Va per terra e per mare.

      A questa conclusione del nostro rimatore fanno eco altri contemporanei che pagarono con simili lodi i benefizi ricevuti dallo Scaligero: così il Ferreto, storico e poeta di Vicenza, ne cantò la gloria in un poema latino, ed il cronista Sagacio Muzio Gazzata ci lasciò una descrizione delle splendide stanze assegnate agli ospiti, dipinte con diversi emblemi a seconda della condizione delle persone.

      Per contrario non gli si mostrò benevolo nè in prosa nè in verso Albertino Mussato, l'insigne storico e il poeta incoronato di Padova, sebbene preso in guerra, sotto le mura di Vicenza, fosse stato trattato da Cangrande più come ospite che come prigioniero. Ma egli era uno dei pochi che serbassero in cuore il culto disinteressato della libertà e del Comune: onde non perdonò mai al signore di Verona le violenze e le insidie a danno della sua patria, mentre per amor di questa, dimenticò, nel maggior pericolo, le ingiurie e l'esiglio sofferti dai Carraresi, che si eran fatti tiranni della città; e invitato si unì con essi contro il comune nemico.

      Autore, tra le altre opere, di una tragedia latina dove col titolo di Ecerinis mette in iscena il tiranno, già diventato leggendario, della Marca Trevigiana, il Mussato chiama lo Scaligero Ezelino redivivo. Ma questi, benchè non immune dai vizi dell'età sua e del suo stato, non merita davvero sì ingiuriosa appellazione. Si citano di lui vari tratti che lo mostrano magnanimo anche cogli avversari e assai men rapace d'altri più potenti sovrani; così quando Filippo il Bello, d'accordo con Clemente V, abolì l'ordine dei Templari (nel Tempio portò le sacre vele), e si appropriò le immense ricchezze che possedeva in Francia, Cangrande invece consegnò lealmente ai cavalieri Gioanniti i beni immobili esistenti nel suo Stato, e volse ogni rimanente a vantaggio della città. La sua potenza fondavasi sull'accorgimento politico non meno che sulla virtù guerresca, ed era giunta all'apice nel 1319. Aveva finito col sottometter Padova, cedutagli dallo stesso Marsilio da Carrara, in odio al suo tristo congiunto Niccolò; e posto l'assedio a Treviso, anche questa città gli si arrese, per consiglio degli anziani che vollero prevenire un moto di popolo in favore della nuova signoria. Ma pochi giorni dopo esservi entrato, morì di morbo improvviso, e la sua fine, se crediamo ad un anonimo cantore, fu pianta da tutti, baroni e plebei, e anche da ogni principe e re di corona.

      Mort'è la fonte de la cortesia,

      Mort'è l'onor de la cavalleria,

      Mort'è il fior di tutta Lombardia,

      Ciò è messer Can grande,

      Che 'l suo gran core e la sua valoria

      Per tutto 'l mondo spande!

      Ed un altro rimatore, forse più antico, diceva del pari in un sirventese non pervenutoci intero:

      Messer Can de la Scala, franca lanza

      [è 'l più le]al che sia de qui a Franza,

      [per tutto] 'l mondo el porta nomenanza

      de prodeze.

      I nipoti Mastino ed Alberto ne ereditarono il dominio e l'ambizione, ma non l'animo nè il senno. La fortuna in principio li favorì coll'acquisto di Brescia, di Parma e di Lucca; ma la loro minacciosa grandezza suscitò nel 1337 una lega capitanata da Venezia e Firenze, coi Visconti, i Gonzaga ed altri signori italiani e stranieri a desolazione e rovina degli Scaligeri. Dicevasi allora, e lo riporta un anonimo cronista romano, che Mastino si fosse procacciata una preziosa corona per farsi incoronare re de Lommardia; una simile accusa, in sul finir del secolo, si ripeterà per Giangaleazzo Visconti: e bastava a stringere momentaneamente in un fascio le forze di tutti, contro il pericolo da tutti temuto. Mastino II e Alberto, vinti ed oppressi, perdettero tre quarti dei loro stati e dovettero nel 38 giurar fedeltà a Venezia,

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