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su cui era sorto il dominio mondiale dell'antica Roma; sì bene veniva ad affermare l'impotenza di Roma medievale, di vivere indipendente e libera. E dappoichè il papa l'avea abbandonata, il popolo invocava il braccio dell'impero, e chiamava l'imperatore Enrico a salire il Campidoglio da trionfatore, e a restarvi, tenendosi pago il popolo di essere riconosciuto come autore del nuovo principato: Cæsarem evocandum in urbem, scrive il Mussato, vehendumque triumphaliter in Capitolium, principatum ab sola plebe recogniturum.

      Ricordo troppo amaro avea Enrico portato con sè da Roma, perchè potesse accogliere l'invito che eragli fatto. Nè s'ingannò disconoscendo di quello la serietà e l'efficacia. Infatti, colla stessa rapidità ond'erasi compiuta poc'anzi la rivoluzione democratica, la reazione dei nobili atterrava, sulla fine di febbraio del 1312, il reggimento popolare, non curandosi del riconoscimento che quello avea avuto da Avignone. Le parti sono ora invertite; il giudice dei nobili, Jacopo Arlotti, è tratto in prigione, e i nobili da lui banditi riprendono il seggio senatorio.

      La lunga assenza del papato accresceva intanto le angoscie di Roma. Venuti meno alla città i profitti della curia, la miseria afflisse le classi popolari, incapaci di compensare col lavoro i redditi mancati. La miseria del popolo diè impulso al rimbaldanzire della nobiltà faziosa; la quale trovò ora nello stesso ceto sacerdotale un emulo alle sue ribalderie. In una epistola indirizzata dai Romani a papa Giovanni XXII, è fatta una nera dipintura dei costumi dei giovani ecclesiastici. Essi scorazzavano, diceva lo scritto, di notte per le vie con la spada in pugno, commettendo ogni fatta di enormezze: per tabernas et loca alia inhonesta cum armis evaginatis per urbem… homicidia, furta, rapinas commictunt.

      Unico rimedio a codesti mali riguardavasi da tutti il ritorno dei papi in Roma; e legazioni su legazioni furono mandate dai Romani ad Avignone per sollecitare papa Giovanni a fare ritorno nella sua legittima sede. Non ascoltati, e' gittaronsi nelle braccia del suo nemico Lodovico il Bavaro; il quale allora appunto veniva in Italia per strappare dalle mani di usurpatori stranieri, com'egli diceva, i diritti dell'impero e la signoria del mondo. “Nell'aprile del 1327, i Romani, scrive Giovanni Villani, si levarono a rumore e feciono popolo.„ Impadronitisi gl'insorti di Castel Sant'Angelo, cacciarono dalla città i partigiani del re angioino e fondarono un governo democratico, eleggendo capitano del popolo il ghibellino Sciarra Colonna, quel desso che, 25 anni prima, avea in Anagni puntata la sua spada al petto di Bonifacio VIII. Giovanni XXII, preso da furore, bandisce una crociata contro il Bavaro; e questi fa proclamare dal popolo romano, radunato in parlamento nella piazza di San Pietro, la deposizione del pontefice imputato di eresia. Ma la eresia di che papa Giovanni era colpevole davanti ai Romani, e per la quale essi eransi levati contro di lui e aveanlo deposto, era cosa affatto diversa da quella dichiarata dall'umanista padovano Marsilio nella sua celebre invettiva: la colpa del pontefice era di dimorare fuori di Roma e di rifiutarsi a farvi ritorno. Vi era tanto poco sentimento religioso in quella levata di scudi, che in quei giorni stessi di fermento popolare, un cappellano del papa, Jacopo Colonna, potè entrare in Roma accompagnato da quattro uomini mascherati, leggere pubblicamente la sentenza di scomunica lanciata dal papa contro il Bavaro, e andarsene poi da Roma, senza che alcuno lo molestasse. Conclusione necessaria di questa lotta fu la creazione di un antipapa. Sortì eletto, con procedimento affatto nuovo, un monaco di Corbara, che prese il nome di Nicolò V.

      Ma tutto questo dramma effimero svanì, appena che Lodovico fu partito da Roma, menando seco l'antipapa. La sua partenza era parsa piuttosto una fuga. Un'impresa tentata con esito infelice contro Napoli gli avea fatto perdere ogni prestigio presso i Romani; e quando egli se ne andò, “lo ingrato popolo, scrive Giovanni Villani, gli fece la coda romana, onde il Bavaro ebbe grande paura ed andonne in caccia e con vergogna„. Così l'impero, che l'Allighieri avea poc'anzi magnificato nella sua idealità sublime, cadeva ora in una realità ignominiosa. I Romani divisero quell'ignominia. Il popolo, fatto nuovo parlamento, abiurava la fede data al Bavaro e all'antipapa, e faceva piena sottomissione al papa di Avignone. Tornarono ora gli antichi malanni, rincruditi dalle nuove delusioni, a tormentare la misera città. La quale consumavasi nella inopia e nella oscurità col capo rotto ed esangue, intanto che nella remota Avignone il vecchio pontefice, dimentico di lei, ammassava tesori. Alla sua morte, trovaronsi nel suo scrigno diciotto milioni in tante monete d'oro e sette in oggetti preziosi. Questo tesoro dà ragione della povertà onde Roma era allora tribolata.

      Ma la morte del pontefice avaro non pose termine e nemmeno temperò i mali della misera metropoli. Il nuovo papa, Benedetto XII, invece di restituirvi il sommo pontificato, inalzava in Avignone un palazzo pontificio di dimensioni colossali, quasi che esso fosse destinato a ospitare perpetuamente i papi. Questo Vaticano avignonese dura anche oggi nella sua grandiosità, coi suoi merli e colle sue torri, ma muto e vuoto come un sepolcro di Faraoni; e pure, chi sa dire, se esso rimarrà morto e vuoto per sempre? O che il suo risorgere e ripopolarsi di nuovi gerarchi della Chiesa, non sia scritto nei fatali ricorsi della storia?..

      Sotto l'impressione di questo abbandono del papato che pareva definitivo, il popolo romano, a segno di protesta, si levò un'altra volta a ribellione: “feciono popolo„, secondo la frase del Villani. Questa rivolta del 1338 si distingue dalle precedenti pel proposito degl'insorti di romperla coi papi per sempre. E come i Romani antichi, nell'atto di scrivere le patrie leggi, aveano interrogato la sapienza greca; così i loro lontani nipoti, nell'atto di mutare gli ordini dello Stato, interrogarono la sapienza dell'Atene italica, e v'inviarono legati, perchè studiassero quegli Ordinamenti della giustizia, coi quali Firenze avea del tutto fiaccata la potenza dei grandi. Ma ben altra era la condizione delle arti fiorentine da quella delle romane! Alla prima prova, si sentì l'inefficacia della riforma, e papa Benedetto potè proseguire tranquillamente la fabbrica del Vaticano avignonese, e nominare a Roma novamente i senatori!

      Passarono tre anni, e la scena cangiò un'altra volta. Ora il cambiamento fu più strepitoso per la comparsa di un personaggio, che seppe per un momento trasfondere nel popolo l'entusiasmo che lo animava, e con le sue novità riempì di stupore l'Occidente. Egli è Cola di Rienzi; personificazione viva di un'età che sta a cavaliere di due mondi, il barbarico che si estingue e il classico che rinasce. Ciò spiega le antinomìe che si manifestano nel famoso tribuno; le quali sono così spiccate e recise, da far credere che in lui due persone opposte coesistessero: l'una che intuisce e crea, l'altra che travede e distrugge la stessa opera sua. Quest'opera non era però tutta uscita dalla mente di Cola: gliene avea dato la prima idea Francesco Petrarca, con lo avere posto su la cima dell'ideale del popolo italiano il concetto e il nome d'Italia nazione. E Cola, traducendo in atto la grande idea, la guastò con lo associare al disegno della unificazione politica d'Italia con Roma a centro, il concetto della monarchia universale foggiato in iscenate simboliche e teatrali.

      Nessun momento, a guardare le cose come apparivan di fuora, presentavasi più propizio per realizzare il grande pensiero del Petrarca: il papato, cagione secolare delle divisioni italiane, erasi condannato all'impotenza con lo abbandono della sua legittima sede: l'impero, ferito a morte nella persona di Enrico VII, mandava con Lodovico il Bavaro e con Carlo IV l'ultimo rantolo. “Le due luci del mondo, l'impero e il papato, scriveva allora il Petrarca, sono sull'estinguersi; le due spade stanno per ispuntarsi.„ Il regno di Napoli, grande cittadella del guelfismo italico e l'arsenale del papato, era, colla morte del re Roberto, caduto in uno stato di sfacelo; onde niun ausilio poteva più il papato aspettarsi da esso: le città italiane, in lotta coi loro tiranni, aspettavano un liberatore: e questo liberatore parve per un momento che comparisse nella persona di Cola da Rienzi; cui l'uomo celebrato allora in tutto il mondo come un genio, avea salutato “Camillo, Bruto, Romolo redivivo„; e togliendo ogni misura alla sua ammirazione per l'eloquente novatore, avealo perfino chiamato un dio. “Quando ripenso, scrivea il Petrarca a Cola, il gravissimo e santo discorso che mi tenesti l'altro ieri su la porta di quell'antica chiesa, parmi di avere udito un oracolo sacro, un dio, non un uomo.„

      Ma chi, con occhio perspicace, avesse guardato dentro il cervello di quest'uomo, anzichè arrestarsi alla sua parola ammaliatrice; chi avesse inoltre rivolta l'indagine alla cagione ispiratrice dell'entusiasmo di Roma per lui; l'incanto magico da cui la città pareva rapita, sarebbesi rivelato cosa del tutto effimero. Una tale indagine avrebbe, infatti, dimostrato, che tutto l'edifizio innalzato da Cola poggiava sull'arena. Nè poteva accadere altrimente, non essendo il fondatore suo nè capitano, nè uomo di Stato; egli era privo, cioè, delle due qualità necessarie, tanto a fondare gli

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