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gli occhi da terra, e la sua voce aveva una soave musicalità: era calda e modulata, come un flauto. Vedendola così diversa, così mite e benevola, io mi sentivo a poco a poco mancare la baldanza di cui m'ero compiaciuto tanto con me stesso. Già incominciavo ad avere idee confuse e un tremito nervoso dentro, non so dove. Anch'io abbassai gli occhi. Ella, ora, taceva, certo in attesa che io parlassi. Ebbi il pensiero di alzarmi e di fuggire. Ma non mi mossi e cercai invece, faticosamente, qualche parola insignificante che mi salvasse. Stando così, a capo chino, vedevo soltanto il lembo della sua veste che era azzurra, di velo, un pizzo candido, molto lavorato (mi ricordo, questa immagine è molto precisa) e la punta dei suoi scarpini, che erano ricamati d'argento. Poi i miei occhi si smarrivano sul tappeto, disegnato a grandi rose porpuree. Finalmente, dopo molto cercare dissi:

      – No, signora, non è tutto…

      Il suono della mia voce mi stupì. Io non sapevo di avere una voce così sottile, sottile e stonata; una voce così ridicola.

      – Che c'è dunque ancora? – domandò Daria.

      Sollevai il capo. Ella mi guardava, ora, con occhi un po' inquieti. Pure continuava a sorridere, e la sua bocca rossa, molto molto rossa, sorridendo si curvava ad arco. Sembrava che volesse dirmi con quello sguardo e quel sorriso:

      – Che può esserci ancora? Vedo bene che sei un buon ragazzo. Soltanto hai una cravatta orrenda, veramente brutta e volgare.

      – Ecco, – soggiunsi: – Clauss desidera che voi veniate a cena da lui questa sera. Egli si pente di avervi offesa. Forse non lo credete? Eppure parlandomi di voi, oggi, e di quanto è accaduto, Clauss piangeva… Vi giuro, – esclamai con maggior forza, senza sapere nemmeno di mentire, – vi giuro che piangeva dirottamente!..

      – Ah! – continuai con l'impeto di un insensato, – voi non potete immaginare quanto egli soffra, e come sia degno della vostra pietà. Bisogna conoscerlo, e amarlo (sì, amarlo, anche, un poco, un poco almeno), per comprendere ciò che si cela sotto l'impassibilità del suo volto… Non si giudicano gli uomini dalla faccia, non si possono giudicare. Quell'impassibilità è una maschera, signora, niente altro che una maschera, una tristissima maschera. Chi indovinerebbe in lui un uomo che deve morire?

      – Ah! Ah! Tutti dobbiamo morire, – interruppe Daria. – Non è un'eccezione!

      – No! Non tutti. V'ingannate. Non tutti dobbiamo morire! – M'arrestai spaventato delle mie parole e mi sforzai di ridere.

      – Dico, voglio dire, perdonatemi, che non tutti hanno i giorni contati, – continuai. – Abbiamo forse tutti i nostri giorni contati? Ebbene: Clauss ha i giorni contati. Niente può salvarlo. Oh! signora, è triste vedere un uomo morire, ascoltarlo mentre rassegnato, eppure accorato, vi dice: – Fra poco morirò, me ne andrò per sempre. Immaginate una realtà più angosciosa, un addio più commovente? Che differenza esiste fra lui, Carlo Clauss, e un uomo condannato a salire il patibolo, all'alba di un giorno stabilito, in quell'ora precisa, allo scoccare di quel minuto, non un istante prima, non un istante più tardi? Mi è stato detto che un uomo, sul punto di essere giustiziato, chiedesse in grazia che gli fosse portato un fiore, un fiore rustico, una di quelle piccole violacciocche che hanno un po' il profumo del reseda. Ebbene, quando alfine gli fu portata, nella cella della sua prigione, ed egli l'ebbe odorata a lungo, più volte, la sua faccia si illuminò di beatitudine, e disse: – Ora sbrigatevi. Ora sono felice. È una morte storica, un esempio! Sì, signora, si legge in un'antologia. Così Clauss…

      – Basta, basta, per carità! – esclamò Daria posando una mano sulla mia bocca. – Mi farete morire di crepacuore!

      Quella mano tepida, molle, molle e carezzevole, posava sulla mia bocca. Io sentivo che era tepida e profumata, e che indugiava sulle mie labbra. Ebbi come un principio di vertigine, sollevai la mano fino a toccar quella mano; poi la ritrassi e chiusi gli occhi. E la mano se ne andò, strisciando, carezzandomi il mento, leggiera, lenta, ed io rimasi con il profumo di quella carne sulla bocca.

      – Ebbene? – domandò quella voce. – Che cosa volevate dire? Che io sia per lui come un fiore? Come una violaciocca, un piccolo fiore di campo?

      Io volevo rispondere: – No, no! Non dovete andare. Non voglio!

      Ma ero come assonnato. Udivo, vedevo, comprendevo, ma non potevo nè muovermi, nè parlare.

      – Che io vada? – mormorò (ed era nella sua voce qualche cosa di più commovente che il pianto, di più tenero che una carezza, di più dolce che una parola d'amore), – che io vada? Perchè egli dica di me, domani, come ieri: – Quella donna è doppia come un serpente? – oppure: – Ella è venuta ad offrirsi ma io non l'ho voluta?

      – No! – esclamai, – Clauss non dirà questo. Io sarò presente. Noi ceneremo insieme sulla veranda, ed egli non potrà insultarvi…

      – Ah! tu non lo conosci! – (ella disse così: tu non lo conosci). – Clauss è capace di tutto.

      La sua voce era tanto ferma che ne rimasi sconcertato. No, non ero ancora perfettamente lucido. Avevo un folle desiderio di piangere. Pensavo: – Se non viene questa sera forse non la vedrò più, mai più. E mi pareva di perdere un gran bene, una gran gioia, non potendole stare accanto per qualche ora, di notte, alla luce delle candele, sulla veranda, nell'intimità di una piccola tavola imbandita.

      – Ma che v'importa di lui? – gridai. – È una grazia che vi chiedo per me, per me solo!

      Caddi in ginocchio, le presi le mani, vi posai sopra le labbra e rimasi così, curvo, attonito. E stando così, curvo, sentii un contatto caldo, una calda carezza sui miei capelli, (io tenevo strette le sue mani contro la mia bocca), una carezza assai lunga e calda sui miei capelli.

      – Anche tu sei moribondo? – chiese la sua voce, vicinissima.

      – Daria, Daria, – mormorai, – non mi disprezzate? Non vi ricordate di ieri? Delle mie parole?

      – No, – disse, – non mi ricordo. Non voglio ricordarmi.

      – Mi perdonate?

      – Sì, – disse, – ti perdono. E soggiunse, dopo una pausa, parlando ancora più sommessa: – Verrò, verrò questa sera…

      Allora il mio fervore cadde. Mi sollevai e, senza guardarla in viso, ancora una volta le baciai le mani, e me ne andai.

      Uscendo sulla strada soleggiata, provai l'impressione di destarmi da un sogno. I colori, la forma delle case, le persone che stavano affacciate alle finestre e sugli usci o che passavano accanto a me; le loro voci; un pappagallo sul trampolo; l'insegna d'un'osteria, un fanciullo che saltava dinnanzi ad una porta rossa; tutto quel rimescolio di gente, quella varietà di colori, l'intensità della luce, mi stupirono come se avessi lasciato il mondo buio, muto e deserto, e lo ritrovassi ora illuminato, sonoro e popoloso. Da quegli uomini e quelle donne (essi ridevano forte, parlavano, si salutavano, si chiamavano da lontano, si rincorrevano), da quel frastuono di grida, di risa, di canti, di rumori, di musiche (il rotolare saltellante delle carrozze, lo schioccar delle fruste, i carri, lo sbatacchiar degli usci), si comunicò a me un desiderio infantile di correre, di ridere, di cantare, di partecipare, anima e corpo, a quella vita che si manifestava tutta alla superficie, come la spuma di un vino leggiero e inebbriante. Guardai il mio orologio: era ancora molto presto. Camminando celeramente, mi sembrava di esser portato dal vento, tanto mi sentivo felice.

      VII

      Non so perchè gli angioli che si vedono negli antichi pittori e quelli che si librano sulle loro grandi ali variopinte, le pieghe dei camici piene di vento, sotto le grandi cupole delle chiese, abbiano tutti sembianze femminee, lunghi riccioli bene inanellati, e negli occhi un'amorosa luce. Noi le contempliamo da fanciulli, con vergine maraviglia, quelle incantevoli immagini, e ci insegnano ad adorarle, perchè sono la bellezza, la purità, l'amorosa musica del cielo. La nostra infantile fantasia, dipingendo poi di sogni la terra, scopre nel viso di nostra madre, in quel volto giovine e bello che si curva sopra di noi ogni sera a chiuderci con un bacio le palpebre al sonno, che ci veglia amoroso quando l'incubo ci desta improvvisamente in piena notte e il buio e la solitudine sono

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