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i fianchi (io sentivo contro le mie ginocchia il suo corpo molle, il tepore dei suoi abiti). – Nessuno mi difende! – diceva. – Sono sola! Sono perduta!

      – Non avete quello Sterpoli? Quello che vi balbettava di fuggire? Il mio ospite, insomma? – domandavo trepidando.

      – Sterpoli? un buffone! Non serve! Non serve!

      Ed io la sollevavo, la tenevo stretta contro il mio petto, la baciavo teneramente.

      – Amor mio, sono pronto! Occorre morire? Uccidere?

      La mia persona, apparendomi improvvisamente nello specchio, mi richiamò alla realtà. Sentii una vacuità dolorosa in me, una disperazione insensata. Mi pareva che Clauss fosse a spiarmi dietro una tenda, da un foro della parete, da una fessura dell'uscio; il suo riso vitreo mi feriva l'orecchio ed io avevo vergogna. In quello specchio, con i miei abiti goffi e il mio volto infantile, fra quelle cose meschine che mi stavano intorno e si beffavano di me con la loro miseria, ero davvero una persona molto compassionevole e buffa. Quale donna avrebbe potuto guardarmi senza dire: – Chi è costui? Che cosa vuole da me? Sì, certo, io ero ridicolo. Facevo pietà e pena a me stesso. Ripensavo ai compagni di Clauss; mi ricordavo che uno aveva calze di seta porporina, e un altro un braccialetto d'oro smaltato al polso, e un altro una cravatta meravigliosa di fili intrecciati argentei e violetti, e una gardenia all'occhiello. – Che cosa sono io? – pensavo. – Tutti si befferanno di me.

      Questo eccitamento durò fino a tarda notte. Verso l'alba la stanchezza s'impadronì dei miei sensi e li calmò. Allora udii un passo lento e pesante lungo il corridoio e Sterpoli entrò barcollando nella mia camera. Era impolverato da capo a piedi. Aveva gli abiti in disordine, la camicia lacera. Si sedette sul mio letto, mi guardò e si mise a ridere.

      – Hai udito? Hai veduto? – esclamò. – Tu puoi testimoniare. Mi ha schiaffeggiato! Sì! Mi ha colpito sul viso…

      Il riso si spense sulla sua bocca. Si strofinò la faccia con un fazzoletto, si versò un po' d'acqua e bevve.

      – Tutti hanno udito, – continuò, – tutti hanno veduto, tutti possono testimoniare. Mi ha colpito sul viso. Ma non era per me. È stato un errore. Appena ella è fuggita, io mi sono precipitato giù per le scale e l'ho raggiunta in istrada, mentre stava per montare in carrozza. – Daria Daria, mia colomba, mia nemica, – le ho detto – tu mi hai acciecato! Non posso più vederti! – e ho cercato di montare sul predellino della sua carrozza. Macchè! Mi ha respinto con una mano e, credo, anche con la punta del piede. – Va via! – ha detto. – Va via! – Come! – esclamo, – mi colpisci, mi acciechi, e poi mi compensi così? Mi scacci via? Come un cane? Io sono il tuo Lippi! Non ti ricordi di questo nome? – Di nuovo cerco di salire. Di nuovo sento qualche cosa di duro, di molto duro, contro il mio petto, che mi respinge. Ella dice con astio: – Peggio, peggio di un cane! Fa sferzare il cavallo e la carrozza parte al galoppo. Io la rincorro per un buon tratto; poi inciampo e cado. Un tale si avvicina e mi rialza. È Pietro Trema: un mezzano, un galantuomo. – Non vale la pena, signore! – dice mentre mi spolvera. – Quella donna è pazza. È pazza. Andiamo a bere un sorso! – Andiamo, – rispondo. – Ma che ella sia pazza, no, non lo dire a nessuno. Entrammo non so dove, bevemmo e pagai. Gli dissi: – Ora hai bevuto. Ora, lasciami stare. – È impossibile, – pensavo, – è impossibile che mi abbia respinto, scacciato come un cane. Io non sono di quelli che si scacciano con la punta del piede, di quelli ai quali si dice: – Come un cane! Peggio di un cane! Dunque presi un ronzino e mi feci condurre. Tutto era silenzioso in casa sua: le finestre chiuse, la porta chiusa. Suono il campanello e aspetto. Nessuno risponde. Suono di nuovo, più forte, a lungo; strappo il cordone. La vecchia si affaccia al mezzanino e dice: – Non c'è. Non è ritornata. Forse non ritornerà. – Il malanno! – urlo. – Non è vero! C'è. È ritornata. E mi metto a calciare la porta. Ora s'ode un'altra voce che dice: – Lippi, Lippi mio, vattene. Sii buono. Domani sarà giorno. Ritorna domani. Io mi scosto dall'uscio e mi faccio in mezzo alla strada. Dico: – Ti debbo parlare… subito… Tu mi hai quasi acciecato. Domani sarà troppo tardi. – Perdonami! – risponde. – Non volevo farti male… Ora non è possibile. Domani… – Non t'importa dunque nulla di me? – grido io. Non hai pietà, non hai cuore? Ella ride: – Domani, Lippi! Buona notte, buona notte. E richiude le imposte e tutto ritorna silenzioso e buio. E io dico a me stesso: – Dopo tutto non è in collera… Era per quell'altro, per Clauss. Capisci? Ah! tu non capisci niente!

      Rotolò giù dal letto. Si reggeva male in gambe, eppure trovò modo di abbracciarmi e di baciarmi.

      – Che hai? – mormorò al mio orecchio. – Non parli? Sei addormentato? Sta allegro! Domani tutto sarà chiarito. Ah! eppure questo mi dispiace. Io preferisco la notte. Di giorno sono come un bambino; la luce mi intimidisce e arrossisco di nulla. Di notte invece no. Sono padrone di me stesso. Sono un altr'uomo.

      Io sentivo contro il mio viso il suo alito di ubriaco. Si avvicinò ancora più a me fino quasi a gravarmi con tutto il peso della sua persona, e sussurrò con voce ancora più bassa:

      – Anche lei, di notte, è più bella… Che dico? Ah! Dico troppo, eppure è più bella. Sì. Perchè nasconderlo? Perchè mentire con te? Tu mi piaci, perchè tu solo hai avuto pietà di lei. Tu ti sei curvato e le hai detto una parola buona. Non mi ricordo bene, ma le hai detto qualche cosa che volevo dirle io. Ti prometto di parlarle di te domani. Le dirò: – Quelle parole le avevo io sulla punta della lingua, ma egli me le ha tolte di bocca. Eppure temo che mi manchi il coraggio di dirle nulla, perchè domani sarà giorno. Di notte è un'altra cosa, sebbene sia anche più temibile. I suoi occhi sono come quelli dei gatti. La sua carne muta colore, come l'opale, o la madreperla, la madreperla levigata e cangiante. La sua carne… Ah! Io non direi queste cose a nessuno… È un gran segreto!

      Tacque e si avvicinò allo specchio.

      – Non ti pare, – domandò guardandosi, – non ti pare che io sia bellissimo?

      Si inchinò e mi disse addio.

      Io chiusi la porta dietro le sue spalle e mi gettai, esausto, sul letto.

      VI

      Quando, a mezzogiorno, fui pronto per uscire, decisi di andare lungo la spiaggia dove erano tirate a secco alcune flottiglie di barche e distese al sole lunghissime reti. Il meriggio era tiepido e sereno: calmo, il mare, appena ondeggiava. Vagai per qualche tempo qua e là, a caso, raccogliendo conchiglie e facendo disegni sulla sabbia, finchè vidi, sopra la punta di una penisoletta, la casa di Clauss, poco lontana, fra un giardino di palme che l'onda lambiva da tre lati. Ad essa si saliva per un viottolo disselciato, fiancheggiato da muri e da siepi di oleandri. Clauss in persona s'affacciò alla veranda, mentre io bussavo al cancello. Discese ad aprirmi, e tutti e due ci sedemmo sotto un tiglio, fra due aiuole fiorite.

      – Ebbene? – mi domandò.

      Non gli avevo mai veduto un viso così buono.

      – Ebbene, – risposi, – ieri sera eravamo tutti pazzi.

      Clauss aveva l'aspetto di un ragazzo pentito, tanto i suoi occhi erano miti e il suo atteggiamento umile. In quel momento, con quel volto stanco, con quel sorriso che appena gli sfiorava la bocca, somigliava veramente poco a sè stesso.

      – Sì, – disse, – eravamo tutti pazzi, chi più chi meno. Anche tu, un poco. Anch'io. È strano. Cioè, non è strano. Hai veduto Daria? Tu la vedevi per la prima volta. È fatta così. È come una bambina capricciosa. Una bambina cattiva e viziata. E quel povero Sterpoli, che ha smarrito la ragione per lei, ha avuto ieri sera un gran colpo…

      – Davvero… – mormorai. – L'ho veduto dopo, a casa. Aveva un livido sulla faccia.

      Clauss di nuovo sorrise. Poi mi prese le mani e mi chiese:

      – Mi vuoi bene?

      – Certo… – mormorai esitando. – Perchè non dovrei volerti bene?

      – Grazie, – soggiunse, – ciò mi conforta assai. Chi può dire perchè si desidera e si cerca, alla mia età,

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