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gridando: – Dove siete, maledette ruffiane! Fuori! Fuori, ch'io vi scanni! Tutta la credenza della stanza da pranzo precipita con un fracasso enorme, tutto va in pezzi, sembra che crolli la casa, e sento Kate che grida: mamma mia! Io non mi muovo: ero fredda come il marmo. Si direbbe che tutti siano morti. Non odo più nulla. E poi la voce di Sterpoli grida: – E ora scanno quell'altra! – e si butta giù per le scale. I suoi passi si allontanano per la strada, ed io con il cuore in bocca mi affaccio sull'uscio, e vedo Kate lunga distesa fra uno sterminio di bicchieri, le sottane rovesciate, come morta. Ma non era morta. Apre gli occhi e dice: – Madonna mia perdonatemi… E si mette in ginocchio e prega. Mi avvicino a lei, e quando vede che sono io: – Brutta bastarda, – dice, – ti fosse cascata la lingua per il troppo gridare! E si mette a piangere e a battersi il petto: – Maria Vergine, perdonatemi voi… Io penso a Daria e a Sterpoli che è impazzito, e prendo questo scialle, e mi butto anch'io per le scale, e corro corro a casa di Clauss, e, arrivata dinnanzi al cancello, vedo Sterpoli che ne esce. Il vicolo è stretto e non posso più fuggire. Mi faccio piccina contro il muro. Sterpoli cammina adagio, si ferma a ogni passo come un ubriaco, parla a voce alta, e ride. Mi passa dinnanzi senza vedermi. Ma, non so come, a un tratto si volta, e allora i suoi occhi si fissano dalla mia parte, e torna indietro. Io mi nascondo il viso nello scialle e non vedo più nulla. Lo sento che è a un passo da me, la terra che sgrigliola sotto i suoi piedi, lui che dice: – Sii buona, rondinella. E mi pare che mi stia addosso e che voglia abbracciarmi. Allora spicco un salto e mi butto giù per la scesa come una pazza, mi nascondo in una pianta di oleandro e non mi sono mossa più. Mi parve un secolo. Finalmente Sterpoli passò e disparve. Allora sono uscita, sono tornata su, il cancello era aperto, una finestra era illuminata, sono entrata in giardino, ho chiamato, nessuno ha risposto… Ho avuto paura che qualcuno dalle ville vicine mi udisse. Ho aspettato. Poi ho pensato a te e sono venuta a cercarti.

      Tacque e incominciò a singhiozzare.

      – Bene! – dissi io. – E dopo tutta questa storia perchè Daria dovrebbe essere qui con me? Che cosa sono io? Che cosa è Daria? Finitela con questa commedia! Non temere. Sterpoli non ha scannato nessuno.

      – Sì, ma allora, dimmi, dove sarà?

      – E che importa a me di saperlo? – risposi. – Vuoi che io vada a cercarla nel letto di Clauss per farti contenta? E dove vuoi che sia? Vuoi che ti porti io per mano dietro la porta della loro camera, e che contiamo insieme i baci che si danno, e gli abbracci, e il resto? Vuoi che io faccia, io, quello che Sterpoli non ha fatto, perchè lui è ubriaco e io sono sveglio? – Ah! sono sveglio, ora, ben sveglio, bambina mia! – esclamai, trascinato da una specie di esaltazione ironica. – Sveglio! Non mica addormentato come oggi! Così avessi veduto sempre tanto chiaro! Non sono più un ragazzo ingenuo, non credo più a nulla. Se tu non fossi tu, ma Daria in persona, e non stessi lì a piangere, ma a supplicarmi, ma ad adorarmi in ginocchio, ma a baciare la terra dove posano i miei piedi, non ti crederei, non ti crederei, e scoppierei dalle risa. Altro che carezze sulla bocca, altro che bisbigli di parole tenere nell'orecchio, altro che sguardi caritatevoli voglio io! E io stesso ti porterei per mano da Clauss e gli direi: Eccola questa sgualdrina! Te l'ho portata. Prenditela…

      Sudavo freddo, la testa mi doleva. Nelle orecchie avevo il tumulto di una burrasca. Non ci vedevo più.

      – E ora vattene! – dissi. – Vattene via…

      La urtai più volte con la punta del piede, ma sopratutto il mio ridere a scatti, a sussulti, dovette spaventarla. Senza altre parole, singhiozzando, Soave scese le scale e scomparve. Mentre, barcollando, disfatto, esausto, ripercorrevo il corridoio per rientrare nella mia stanza, la voce di Sterpoli echeggiò dietro l'uscio socchiuso, chiamandomi per nome.

      Entrai. Stava seduto sul letto, voltato verso l'uscio, con la faccia dipinta di paura.

      – Ah! – disse, – sei tu…

      Abbassò il capo, si passò un fazzoletto sulla fronte e domandò:

      – Dove sei stato?

      XI

      Il silenzio che seguì fu lungo e penoso. Nessun rumore nella casa o nella strada. Una solitudine sconfinata. E in quel gran vuoto, in quello spazio senza limite, noi due seduti sul letto, noi due vicini, noi due soli, sperduti in quel mondo vasto e vacuo come un abisso! Ah! come tutto era ridicolo in noi e intorno a noi: i nostri abiti, le nostre tube nere e lucide sui cuscini; i nostri volti attoniti e quel dolore che affratellava improvvisamente due creature estranee, che ci sospingeva l'un verso l'altro, lui e me, con un trasporto pieno di timore e di speranza; di speranza e di tenerezza; di molta tenerezza e di molto amore. Quanto era accaduto un momento prima, quell'eccitazione crudele, quel barlume di coscienza ironica, tutto era svanito. Rimaneva il peso inerte di un doloroso ricordo già lontano. Una commozione insensata. Uno smarrimento cupo e angoscioso. La prima brezza mattutina entrò con un lieve soffio nella stanza e mi accarezzò la faccia. Finalmente Sterpoli, forse scosso da quella stessa carezza di frescura, mormorò:

      – Che fare? Che fare? Ormai è finita per sempre. Ah! non si può tornare indietro: non si può ricominciare da capo. Ognuno ha la sua propria sorte, un destino infame. Non c'è scampo. Non c'è modo di fuggire, d'indietreggiare, di resistere! Una voce è sempre presente, una voce imperiosa che dice: – Ubbidisci! E tu curvi le spalle e ubbidisci, umilmente ti sottometti al tuo destino di schiavo. Che fare? Come potevo io resistere o fuggire? Mi aveva detto: – Sarò tua. Tutto il male sarà compensato. Tu sarai felice! – ed io ero come un prigioniero al quale si dice: – Sta lieto! Domani ti apriremo le porte. Il mondo sarà tuo. Promettere la felicità? Io ero già pazzo di gioia al pensiero che sarei stato felice, che ella sarebbe stata mia. Mia! Perchè questa parola è magica? Quale ebbrezza! Ma d'un colpo, in un attimo, questo sogno rovinava. Con frastuono immenso, con scompiglio spaventoso, questo sogno rovinò sul mio capo, su me, e mi seppellì vivo sotto le sue rovine. – Che fare? – urlavo disperatamente. – È possibile? È vero? – e tutto ciò che toccavo, riducevo in frantumi, in briciole, in polvere! L'idea della morte mi balenò subito nel cervello. Subito la sua figura, schifosa e orrenda, m'apparve e si mise al mio fianco, e mi avvolse con il suo sguardo buio, beffarda e amorevole, spaventosa e attraente. – Che vuoi da me, civetta? – urlavo, ed ella mi additava con gesto servile la sua ghirlanduccia intorno al cranio vuoto, intorno al cranio nudo e risonante, per indicarmi che non tutti i fiori che fioriscono sono di questa terra, di questa terra fangosa e verminosa, di questi giardini che noi irroriamo di lacrime e di sangue! – Morire! dicevo a me stesso. Anche questa è una salvezza, un rifugio, uno scampo. Si può morire. E mi pareva di udire una soave musica di trombe angeliche, lontano e meraviglioso concerto. Di essere libero e insensibile, leggiero e felice. Mi vedevo disteso sopra un letto abbrunato, con questo vestito e questa tuba, e intorno a me s'affollavano uomini e donne che dicevano singhiozzando: – Mi pento di averlo offeso! Mi pento di non averlo amato! Poi ad un tratto tutti si traevano da un lato e Daria si avanzava lentamente, tenendo una rosa rossa fra le dita; s'avvicinava e mi appuntava quella rosa sullo sparato. – Mi pento, diceva guardandomi come una madre guarda il suo bimbo morto. Poi si curvava per posare un bacio sulla mia bocca. Ah! io non sentivo quel bacio! La mia bocca era insensibile. Io non potevo muovermi, alzarmi, abbracciarla, stringerla e tenerla contro di me, e dirle – Vedi? per te mi sono ucciso. Ora mi ami? No: non potevo nè muovermi nè parlare. Allora un uomo si faceva largo fra gli altri, la prendeva per le spalle e la spingeva via. Ed io avrei voluto saltare dalla mia bara (ero disteso in una lunga bara), aggredirlo, insultarlo, percuoterlo su quella faccia impassibile, su quella bocca sempre vittoriosa, urlare: – Lasciala! L'ho pagata col mio sangue! È mia! Ma rimanevo inchiodato tra quei quattro assi ed egli se ne andava con lei, tranquillamente. A che giovava dunque morire? Perchè morire? Perchè uccidersi? E il mio furore cresceva, cresceva la mia disperazione. Improvvisamente mi accorsi di correre lungo una strada buia, sulla quale ogni tanto s'aprivano rare stazioni illuminate, e dietro di me con rumor di zoccoli e di scope, con fracasso di forche e di molle, correva saltando una torma di folletti e di streghe, di spiriti neri e indemoniati. Così giunsi correndo dinnanzi alla casa di Clauss. Mi fermai. Improvvisamente tutti quei folletti svanirono, ed io mi ritrovai solo, sotto una luna livida che sbavava su me la sua luce da cimitero. Il cancello era socchiuso. Guardandomi intorno come un ladro, adagio lo spinsi

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