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Toscana, sí per lo suo valore, e sí per lo stato, il quale ebbe appresso l’imperadore Federigo secondo, il quale quella parte manteneva in Toscana, e dimorava allora nel Regno; e sí ancora per la grazia, la quale, morto Federigo, ebbe del re Manfredi, suo figliuolo, con l’aiuto e col favore de’ quali teneva molto oppressi quegli dell’altra parte, cioè i guelfi. E, secondo che molti tennero, esso fu dell’opinione d’Epicuro, cioè che l’anima morisse col corpo, e per questo tenne che la beatitudine degli uomini fosse tutta ne’ diletti temporali; [ma non seguí questa parte nella forma che fece Epicuro, cioè di digiunare lungamente, per avere poi piacere di mangiare del pan secco, ma fu disideroso di buone e di dilicate vivande, e quelle, eziandio senza aspettar la fame, usò.] E per questo peccato è dannato come eretico in questo luogo.

      Dice adunque l’autore: «Com’io al piè della sua tomba fui»; appare qui che quelle arche non erano in terra, ma levate in alto; «Guardommi un poco», forse per vedere se il conoscesse, «e poi quasi sdegnoso»; è questo atto d’uomini arroganti, li quali quasi, ogni altra persona che sé avendo in fastidio, con isdegno riguardano altrui; «Mi domandò: – Chi fûr li maggior tui?» – cioè gli antichi tuoi: e questo per ricordarsi se cognosciuti gli avesse, posciaché lui non ricognoscea.

      «Io, ch’era d’ubbidir disideroso, Non gliel celai, ma tutto gliele apersi», dicendo che gli antichi suoi erano stati gli Alighieri, onorevoli cittadini di Firenze, e antica famiglia, sí come piú distesamente si narrerá nel canto decimoquinto del Paradiso; «Ond’ei levò le ciglia un poco in suso». Sogliono fare questo atto gli uomini quando odono alcuna cosa, la quale non si conformi bene col piacer loro, quasi, in quello levare il viso in su, di ciò che odono si dolgano con Domeneddio o si dolgano di Domeneddio.

      «Poi disse: – Fieramente fûro avversi», cioè contrari e nemici, percioché guelfi erano, «A me», in singularitá, «e a’ miei primi», cioè a’ miei passati, «e a mia parte».

      [Era, come di sopra è detto, la parte di costui quella che ancora si chiama «parte ghibellina», della qual parte, e della opposita, e della loro origine, par di necessitá di parlare alquanto diffusamente, accioché poi, dovunque se ne tratterá in questo libro appresso, senza avere a replicare, s’intenda. Sono adunque in Italia, giá è lungo tempo, perseverate, con grandissimo danno e disfacimento di molte famiglie e cittá e castella, due parti, delle quali l’una è chiamata parte guelfa e l’altra ghibellina, e hannosi sí fervente odio portato l’una all’altra, che né il gittar le proprie sustanze, né il perder gli stati, né il metter se medesimi a pericolo e a morte, pare che curati si sieno. E questi due nomi, secondo che recitava il venerabile uomo messer Luigi Gianfigliazzi, il quale affermava averlo avuto da Carlo quarto imperadore, vennero della Magna, lá dove dice nacquero in questa forma. Fu in Italia, giá son passati dugento anni, una nobile donna e di grande animo, e abbondantissima di baronie e delle mondane ricchezze, chiamata la contessa Matelda, delle cui laudevoli operazioni distesamente si dirà nel canto vigesimottavo del Purgatorio; la quale, accioché alcun certo erede di lei rimanesse, cercò di volersi maritare, e, non trovando in Italia alcuno che assai le paresse conveniente a sé, mandò nella Magna; e qui trovatosi un barone, il cui nome fu il duca Gulfo, ovvero Guelfo, e costui parendole e per nobilitá di sangue e per grandigia convenirlesi, fece con lui trattare il matrimonio. La qual cosa sentendo un parente di questo Gulfo, il cui nome fu Ghibellino, e udendo la maravigliosa dota che a costui dovea da questa donna esser data, divenne invidioso della sua buona fortuna, e occultamente cominciò a cercar vie per le quali questo potesse sturbare; e ultimamente s’avvenne ad alcuna persona ammaestrata in ciò, il quale adoperò, con sue malie e con sue malvagie operazioni, cose, per le quali questo Gulfo fu del tutto privato del potere con alcuna femina giacere. Per lo qual malificio, essendo dato opera alle sponsalizie, e Gulfo venuto in Italia, e cercato piú volte di dare opera al consumamento del matrimonio, e non avendo mai potuto; tenendosi la donna schernita da lui, con poco onor di lui il mandò via, né poi volle marito giammai. Gulfo, tornatosi a casa, o che Ghibellino sospicasse non questo gli venisse che fatto avea, agli orecchi, o per altro odio che gli portasse, il fece avvelenare, e cosí morí. Ma questa seconda malvagitá di Ghibellino, conosciuta, manifestò ancor la prima: per le quali cose assai nobili uomini della Magna si levarono a dover questa iniquitá vendicare; e cosí molti ne furono in aiuto e in sussidio di Ghibellino; e tanto procedette la cosa avanti, che quasi tutta Alamagna fu divisa, e sotto questi due nomi, Guelfo e Ghibellino, guerreggiavano. Né stette questa maladizione contenta a’ termini della Magna, ma trapassò la fama d’essa in Italia; la quale udita dalla contessa Matelda, e conoscendo la innocenzia di Gulfo e la iniquitá di Ghibellino, in aiuto di quegli che vendicar voleano la morte di Gulfo mandò grandissimo sussidio, nel quale furono molti nobili uomini italiani. E, percioché per avventura in Italia erano similmente delle divisioni, quantunque senza alcun notabile nome fossero, assai di quegl’italiani, che d’altro animo erano che coloro li quali erano andati a vendicar Guelfo, andarono dalla parte avversa, mossi da questa ragione, che, se avvenisse agli avversari loro d’aver bisogno d’aiuto contra di loro, pareva loro essi, con l’avere aiutata la parte di Gulfo, aver dove ricorrere, e perciò, accioché a loro similmente non fallasse ricorso, se bisognasse, andarono nell’aiuto di Ghibellino: e poi l’una parte e l’altra tornatisene di qua, ne recarono questi sopranomi; cioè quegli, che in aiuto della parte di Gulfo erano andati, si chiamaron «guelfi», e gli altri «ghibellini». Ed essendo questa pestilenza per tutta Italia distesa, divenne nella nostra cittá potentissima: e per la uccisione stata fatta d’un nobile cavaliere, chiamato messer Bondelmonte, mise maravigliosamente le corna fuori, e quegli che co’ parenti del cavaliere ucciso teneano, si chiamaron «guelfi», de’ quali furon capo i Bondelmonti; e la parte degli ucciditori si chiamò «ghibellina», e fúronne capo gli Uberti. E questa è quella parte alla quale messer Farinata dice che gli antichi dell’autore furono fieramente avversi, sí come uomini li quali erano guelfi, e con quella parte teneano contro a’ ghibellini.]

      «Sí che per due fiate gli dispersi», cioè gli cacciai di Firenze insieme con gli altri guelfi. E questo fu, la prima volta, essendo lo ’mperador Federigo privato d’ogni dignitá imperiale da Innocenzio papa e scomunicato, e trovandosi in Lombardia, per abbattere e indebolire le parti della Chiesa in Toscana mandò in Firenze suoi ambasciadori, per opera de’ quali fu racceso l’antico furore delle due parti guelfa e ghibellina nella cittá, e cominciaronsi per le contrade di Firenze, alle sbarre e sopra le torri, le quali allora c’erano altissime, a combattere insieme e a danneggiarsi gravissimamente, e ultimamente in soccorso della parte ghibellina mandò Federigo in Firenze milleseicento cavalieri; la venuta de’ quali sentendo i guelfi, né avendo alcun soccorso, a dí 2 di febbraio nel 1248, di notte s’usciron della cittá, e in diversi luoghi per lo contado si ricolsono, di quegli guerreggiando la cittá. È vero che poi, venuta in Firenze la novella come lo ’mperador Federigo era morto in Puglia, si levò il popolo della cittá, e volle che i guelfi fossero rimessi in Firenze: e cosí furono a dí 7 di gennaio 1250.

      La seconda volta ne furon cacciati quando i fiorentini furono sconfitti a Monte Aperti da’ sanesi, per l’aiuto che’ sanesi ebbero dal re Manfredi per opera di messer Farinata, il quale avea mandata la piccola masnada avuta da Manfredi, con la sua insegna, in parte che tutti erano stati tagliati a pezzi, e la ’nsegna, ecc. La qual novella come fu in Firenze, sentendo i guelfi che i ghibellini con le masnade del re Manfredi ne venieno verso Firenze, senza aspettare alcuna forza, con tutte le famiglie loro, a dí 13 di settembre 1260, se n’uscirono; e poi, avendo il re Carlo primo avuta vittoria, e ucciso il re Manfredi, tutti vi ritornarono, e i ghibellini se n’uscirono. De’ quali mai poi per sua virtú o operazione non ve ne ritornò alcuno; per la qual cosa dice l’autore: – «S’e’ fûr cacciati», i miei antichi da voi, «e’ tornar d’ogni parte», – dove ch’e’ si fossero, «Risposi lui, – e l’una e l’altra fiata», come di sopra è stato mostrato: «Ma’ vostri», cioè gli Uberti, li quali con gli altri ghibellini furon cacciati quando la seconda volta vi ritornarono i guelfi, «non appreser ben quell’arte», – cioè del ritornare: percioché, come detto è, mai non ci ritornarono, né, per quel che appaia, sono per ritornarci. «Allor surse». Qui comincia la quarta particella di questa terza parte principale, nella quale l’autore mostra come un’altra anima surgesse e dimandasselo d’alcuna cosa, ed egli le rispondesse; e però dice: «Allor», mentre io rispondea, come detto è, a messer Farinata,

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