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come davanti appare; e però, che che altri si dica, io non discerno assai bene qual si potesse essere quel disio, il quale Virgilio dice qui che l’autor gli tace.

      «Ed io: – Buon duca, non tegno nascosto A te mio dir, se non per dicer poco», per non noiarti col troppo; «E tu m’hai non pur mò a ciò disposto», – ammonendomi di non dir troppo.

      – «O tosco, che per la cittá». Qui comincia la terza parte del presente canto, nella quale con alcune dell’anime dannate in questo lungamente parla l’autore. Nella qual terza parte l’autore fa sette cose: primieramente discrive le parole uscite d’una di quelle arche; appresso come Virgilio gli nominasse e mostrasse messer Farinata e a lui il sospignesse; susseguentemente come con lui parlasse; oltre a questo, come un’altra anima il domandasse d’alcuna cosa ed egli gli rispondesse; poi mostra come messer Farinata, continuando le sue parole, gli predicesse alcuna cosa; dopo questo, scrive come movesse un dubbio a messer Farinata ed egli gliele solvesse; ultimamente come imponesse a messer Farinata quello che all’anima caduta dicesse. La seconda comincia quivi: «Ed el mi disse: – Volgiti»; la terza quivi: «Com’io al piè»; la quarta quivi: «Allor surse alla vista»; la quinta quivi: «Ma quell’altro»; la sesta quivi: – «Deh! se riposi»; la settima quivi: «Allor come di mia».

      Dice adunque nella prima cosí: – «O tosco». Dinomina qui colui, che queste parole dice, l’autore dalla provincia, forse ancora non avendo tanto compreso di qual cittá lo stimasse, e chiamal «tosco», cioè «toscano». [Intorno al qual nome se noi vorremo alquanto riguardare, forse conosceremo avere a render grazie a Dio che toscani, piú tosto che di molte altre nazioni, esser ci fece, se la nobiltá delle province, come alcuni voglion credere, puote alcuna particella di gloria aggiugnere a quegli che d’esse sono provinciali. È adunque Toscana una non delle meno nobili province d’Italia, dal levante terminata dal Tevero fiume, il qual nasce in Appennino, e mette in mare poco sotto la cittá di Roma; e di verso tramontana e di ponente è chiusa tutta dal monte Appennino, quantunque vicino al mare le sieno da diversi posti diversi termini, percioché alcuni dicono quella essere dalla foce della Macra divisa da Liguria, altri la ristringono e dicono i suoi termini essere al Motrone sotto a Pietrasanta, e sono ancor di quegli che vogliono lei finita essere da un piccolo fiumicello chiamato Ausere, propinquissimo a Pisa (e i pisani medesimi, forse piú nobile cosa estimando esser galli che toscani, hanno alcuna volta detto quella di ver’ ponente essere chiusa dal fiume nostro, cioè da Arno, il qual mette in mare poco sotto Pisa); di verso mezzodí è tutta chiusa dal mare Mediterraneo, il quale i greci chiamano Tirreno. E questa terminazione è secondo il presente tempo; percioché anticamente essa si stendeva, passato il monte Appennino, infino al mare Adriano: ma di quindi i galli, li quali seguir Brenno, cacciarono i toscani, e mutaron nome alla provincia, e chiamaronla Gallia.]

      [E fu Toscana, secondo che alcuni antichi scrivono, primieramente abitata da certi popoli li quali si chiamarono lidi, li quali, partendosi d’Asia minore, di dietro a due fratelli, nobili giovani, chiamati l’uno Lido e l’altro Tireno, in quella vennero, e fu la provincia chiamata Lidia da Lido ed il mare fu chiamato il mar Tireno dall’altro fratello. E non solamente quello il quale bagna i termini di Toscana, ma, cominciandosi dal Fare di Messina infino alla foce del Varo, tra Nizza e Marsilia, tutto fu chiamato Tireno; e cosí ancora il chiamano i greci. Poi cambiò la provincia il nome, dall’esercizio generale di tutti quegli d’essa intorno all’atto del sacrificare alli loro iddii, nel quale essi furono piú che altri popoli ammaestrati (e perciò usaron lungo tempo i romani di mandare de’ lor piú nobili giovani a dimorar con loro, per apprender da loro il rito del sacrificare); e peroché essi quasi tutti li lor sacrifici facevano con incenso, e lo ’ncenso in latino si chiama «thus», furon chiamati «tusci», li quali per volgare son chiamati «toscani»: e da questo dirivò il nome, il qual noi ancora serviamo. Ed è, come assai chiaro si vede, Toscana piena di notabili cittá, in sé, tra l’altre, contenendo tanto della cittá di Roma, quanto di qua dal Tevere se ne vede, e, appresso, questa nostra cittá, cioè Fiorenza, la qual tanto sopra ogni altra è eminente, quanto è il capo sopra gli altri membri del corpo; e però meritamente poté l’autore, il quale di questa cittá fu natio, esser da messer Farinata chiamato «tosco».]

      Séguita poi: «che per la cittá del foco», cioè per la cittá di Dite, ardente tutta d’eterno fuoco, «Vivo ten vai, cosí parlando onesto», cioè reverentemente, come poco avante faceva parlando a Virgilio; «Piacciati di ristare in questo loco»; quasi voglia dire: tanto che io ti possa vedere e possati parlare. «La tua loquela ti fa manifesto» esser «Di quella nobil patria», cioè di Fiorenza, «natio, Alla qual forse fui troppo molesto». – Guarda, colui che parla, di dover per queste parole potere piú tosto ritenere l’autore, come davanti il priega; conciosiacosaché volentieri ne’ luoghi strani sogliano l’un cittadino l’altro voler vedere, e ancora volere udire, quando da alcuna singular cosa son soprapresi, come qui faceva quella anima, dicendo forse essere stato alla cittá dell’autore troppo molesto. E dice avvedutamente qui questo spirito «forse», percioché, se assertive avesse detto sé essere stato troppo molesto alla sua cittá, si sarebbe fieramente biasimato, in quanto alcuno non dee contro alla sua cittá adoperare se non tutto bene, conciosiacosaché noi nasciamo al padre e alla patria; e il biasimare se medesimo è atto di stolto; e perciò disse lo spirito «forse», suspensivamente parlando, volendo questo «forse» s’intenda per l’esser paruto a molti lui esser molesto, al giudicio de’ quali per avventura non era da credere: sí come al giudicio de’ guelfi, sí come di nemici, non parea da dover credere contro al ghibellino. Nondimeno come molesto fosse alla patria sua e nostra costui, nelle cose seguenti apparirá.

      «Subitamente questo suono», cioè questa voce; e pone questo vocabolo «suono» improprie, percioché propriamente «suono» è quello che procede dalle cose insensate, come è quello della campana, del tuono e simiglianti: «uscío D’una dell’arche», le quali eran quivi: «però m’accostai, Temendo, un poco piú al duca mio».

      «Ed el mi disse». Qui comincia la seconda particella della parte terza principale, nella quale Virgilio gli mostra messer Farinata, e sospignelo ad esso. Dice adunque: «Ed el mi disse: – Volgiti», inverso l’arca onde uscí il suono, «che fai?», cioè come fuggi tu? «Vedi la Farinata», cioè l’anima di messer Farinata degli Uberti, «che s’è dritto», nella sepoltura nella qual giacea; «dalla cintola in su», cioè da quella parte della persona sopra la quale l’uom si cigne, [La quale non era tanta parte quanta è quella che oggi si vedrebbe; percioché gli uomini soleano andar cinti sopra i lombi, oggi vanno cinti sopra le natiche; e soleva essere la cintura istrumento opportuno a tenere ristretta la larghezza de’ vestimenti, ove ne’ giovani d’oggi è ornamento superfluo d’assai vil parte del corpo loro, percioché, in luogo di cinture, essi fanno ricchissime corone, e, come per addietro delle corone si solea ornar la fronte, cosí delle presenti si coronan le natiche.] «Tutto il vedrai». – Per le quali parole di Virgilio, l’autore, prestamente verso quel luogo rivoltosi, cominciò a riguardare questo messer Farinata.

      E però segue: «Io avea il mio viso», cioè la mia virtú visiva, «nel suo», viso, cioè negli occhi suoi, «fitto», fiso riguardando: «Ed el», cioè messer Farinata, il quale io riguardava, «s’ergea», cioè surgea, levandosi da giacere; ed ergevasi «col petto e con la fronte», li quali l’uomo levandosi mette innanzi; il che messer Farinata faceva, «Come avesse l’inferno in gran dispitto», cioè a vile e per niente: e in questo vuole l’autore mostrare messer Farinata essere stato uomo di grande animo, né averlo potuto, vivendo, piegare né rompere alcuna fatica, pericolo o avversitá.

      «E l’animose man»: diciamo allora le mani essere «animose», quando elle son pronte e destre all’oficio il quale esse vogliono o debbon fare; «del duca e pronte Mi pinser tra le sepolture a lui». Non è da credere che violentemente il sospignessero, ma fecero un atto, il quale colui, che bene intende, prende per sospignere, cioè per essere animato da colui che fa sembiante di sospignere ad andare; «Dicendo», in quell’atto: – «Le parole tue sien cónte», – cioè composte e ordinate a rispondere; quasi voglia dire: tu non vai a parlare ad ignorante.

      «Com’io al piè». Qui comincia la terza particula di questa terza parte principale, nella quale dimostra l’autore come con messer Farinata parlasse: dove, avanti che piú oltre si proceda, è da mostrare chi fosse

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