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occhi del giacente manifestarono dapprima la stessa esitazione, la stessa difficoltà di poc'anzi, come restii ad ubbidire all'intimo volere; poi le ciglia si abbassarono lentamente e le pupille furono coperte.

      – Bene, benissimo: esclamò il Commissario sempre più soddisfatto. Or dunque – fate bene attenzione, da bravo! – quando voi avreste da accennare di sì potreste chiudere gli occhi. Sarebbe come una precisa affermativa alle nostre interrogazioni, pronunziata dalla vostra bocca. Avete capito?

      Le palpebre floscie e giallognole di Nariccia che si erano rialzate tornarono ad abbassarsi sulle losche pupille.

      – A meraviglia! Vedono lor signori che noi ci comprendiamo perfettamente… E credo che non si voglia perder tempo – chi sa che cosa può sopravvenire anche nello stato di questo povero diavolo, che c'impedisca di poi l'approfittare del lume d'intelligenza che gli rimane? – e sia spediente il venir subito all'argomento che più preme.

      Il giudice fece vivamente un cenno di assentimento, e tutti s'accostarono ancora di più al letto, presi da nuovo e maggiore interesse.

      – Avete voi conosciuto i vostri assassini? Se sì, fate come vi dissi, chiudete gli occhi, se no, rimanete colle pupille immote.

      Più presto di quello che avessero fatto per l'innanzi, le palpebre di Nariccia s'abbassarono.

      Tofi continuò il suo interrogatorio.

      – Tutti? Se li avete riconosciuti tutti, chiudete come prima gli occhi; se alcuni soltanto, volgete le pupille alla destra.

      Nariccia chiuse compiutamente gli occhi.

      – Potreste dirne i nomi?

      L'assassinato fece di nuovo il segno affermativo.

      – Troveremo il modo di aiutarvi a dirlo questo nome. Frattanto vediamo un po' in quanti erano. Io pronunzierò i numeri, facendo una pausa fra l'uno e l'altro; quando avrò detto il numero che si vuole, voi accennerete di sì. State attento. Uno!

      Aspettò un istante: le pupille del giacente stettero fisse sul volto del Commissario.

      – Due…

      Gli occhi rimasero immoti.

      – Tre.

      Le palpebre si chiusero.

      – È giusto. L'avrei detto anch'io che dovevano essere in tre, solamente a vedere le traccie del delitto. Uno, il più nerboruto, dovette spacciare la fante, mentre gli altri due erano intorno a voi.

      Nariccia fe' segno di sì; ma i suoi occhi, fino allora semispenti e quasi atoni, cominciavano a prendere un'espressione di sgomento e di terrore, troppo vivo essendo forse nell'interno l'effetto di questo richiamargli alla mente l'orribile scena.

      – Di questi tre assassini io sono persuaso di sapervi dire il nome di due: sono due galeotti scappati, di cui uno vien chiamato Stracciaferro, e l'altro Graffigna.

      Cenno affermativo nel giacente.

      – Rimane il terzo, e questo sono persuaso che è il più importante.

      Nelle pupille di Nariccia corse come un lampo; era una fiamma fugace di quel desiderio di vendetta che stava in lui, e con più vivezza che non avessero ancora avuta, gli occhi si chiusero ad accennar di sì.

      – Il pezzo di vestito che voi avevate tra le mani è suo?

      Segno affermativo di Nariccia.

      – Quello squarcio di abito indica ch'egli vestiva panni signorili. È così?

      Il paralitico rispose affermativamente.

      – Sotto quel bavero ci sono trapunte due lettere dell'alfabeto, F. B. Sono esse le iniziali del nome di quell'individuo?

      Le pupille dell'assassinato rimasero immobili.

      – No? Eh! volevo dirlo ancor io. Ma con un po' di pazienza voi potrete farci conoscere subito quel nome. Porgete attenzione. Come abbiamo fatto pei numeri faremo per le lettere dell'alfabeto: io le pronunzierò adagio, ad una ad una, e voi mi segnerete via via quelle che entrano a comporre cotal nome. Cominciamo dalla prima.

      Si mise a recitare lento e spiccato le lettere dell'alfabeto; gli occhi dell'assassinato stavano intentivamente fissi su quelle labbra come per cogliere a volo il suono delle lettere fatali che avevano da notare, quasi volendo affrettare la pronuncia di quelle che occorrevano. Ma dopo pochissimi istanti quelle pupille tornarono ad appannarsi e la fiamma d'intelligenza che vi balenava venne via via spegnendosi e quando il Commissario era giunto alla lettera H gli occhi di Nariccia si chiusero.

      – Acca! esclamò il signor Tofi meravigliato. Un nome che comincia per acca? Diavolo! Non me lo sarei mai aspettato.

      Si curvò di più sul giacente.

      – Ehi! messer Nariccia, date retta: è proprio l'acca che avete voluto segnare? Riaprite gli occhi da bravo e ripeteteci il segno, se gli è proprio vostra intenzione di notare questa lettera.

      Ma gli occhi di Nariccia non si riaprirono. Il medico s'accostò, lo esaminò, e disse che era inutile insistere, poichè la soverchia interna emozione lo aveva tolto della cognizione.

      Tofi fece un atto di disappunto.

      – Peccato! diss'egli. La cosa era sì bene avviata. Chi sa se quest'infelice potrà tornare in condizione da riprendere siffatto interrogatorio!

      – Converrà usare dei riguardi: soggiunse il medico, e non ricominciare troppo presto. La emozione è troppo forte ancora e troppo recente, perchè facendo rivolgere su quel fatto la sua mente indebolita non succedano tristi effetti a danno della sua salute.

      Il Commissario diede bruscamente una crollatina di spalle che significava con molta evidenza: «quando ne avessi tratto fuori quel che voglio, crepi o non crepi costui, che cosa m'importa?» ma non disse verbo.

      Il marchese che non aveva più ragione alcuna d'indugiarsi in quella casa, se ne partì col gesuita. Il suo animo era stranamente commosso, la mente turbata. L'intreccio de' casi, la combinazione di quelle strane, inaspettate, imprevedibili circostanze gli facevano scorgere in tutto codesto un certo che di fatale, come un disegno della Provvidenza che volesse, ora, dopo tanti anni, metterlo al cimento di nuovo e dargli occasione a riparare a quel suo fatto per cui gli durava ancora potente nell'animo il rimorso. S'egli non avesse ucciso Valpetrosa (andava seco stesso pensando), il figlio di lui non sarebbe caduto in sì misera sorte!..

      Giunti alla carrozza, che aspettava nella strada, Baldissero e fra' Bonaventura, questi, mentre il valletto, col cappello in mano, teneva lo sportello aperto perchè ci salissero, disse:

      – Eccellenza, io la saluto. Ella se ne torna forse a casa, ed io rientro nel mio convento.

      Il marchese pose una mano sotto l'ascella del frate a fargli invito a salire nel legno.

      – Venga, venga meco, gli disse, l'accompagnerò fino al Carmine e la deporrò alla porta.

      Salirono ambidue, e la carrozza si diresse di trotto verso il luogo indicato.

      Per un po' rimasero in silenzio tuttedue: fu poscia Padre Bonaventura il primo che incominciò a parlare col suo tono più insinuante che mai.

      – È una dolorosa contrarietà, un fatale contrattempo questa orrenda disgrazia capitata al povero Nariccia. Temo pur troppo ch'egli non tornerà mai più in istato da potersi spiegare chiaramente e farsi intendere con sicurezza; e senza la sua testimonianza è affatto impossibile dileguare quei dubbi che ci si affacciano intorno all'essere di quel giovane.

      Il marchese lo interruppe con un gesto che indicava desiderare che per allora non gli si parlasse più di codesto.

      – Penserò di meglio quello che mi tocchi di fare, disse: pregherò Dio, e preghi anche Lei per me, di grazia, perchè m'illumini.

      S'era giunti al convento del Carmine, il gesuita discese con ringraziamenti, rispettose salutazioni ed umili proteste di devozione, e il marchese continuò la strada per al suo palazzo. Diverse idee gli tenzonavano nella mente, diversi affetti gli agitavano l'animo. I pregiudizi, l'orgoglio, la bontà del suo cuore, il rimorso lottavano in lui, mandandolo

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