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sussurrò alla cognata, in confidenza, «questa volta credo sia per davvero!…» Erano quelli i sintomi? Poteva ingannarsi? Tante volte aveva sperato d’apporsi e festeggiato invano l’avvenimento, che adesso non ardiva più annunziare apertamente la gravidanza se non prima la vedeva confermata. Poi, lasciata la principessa, prese a parte Matilde e ricominciò a dirle: «La levatrice n’è certa! Tu che cosa provi?… Come ti sei accorta?…»

      Matilde non l’udiva. Adesso che don Blasco non misurava più la sala da un’estremità all’altra, Raimondo aveva ricominciato l’armeggio dello zio monaco, non stava fermo un momento, chiedeva continuamente che ora fosse. Voleva andar fuori? Aspettava qualcuno? Ella era inquieta della sua inquietudine… Frattanto arrivavano nuove visite: la duchessa Radalì e il principe di Roccasciano, donna Isabella Fersa col marito. L’entrata di quest’ultima mise sottosopra la società: il principe, che ordinariamente non era molto galante con le signore, le andò incontro fino nell’anticamera; Raimondo anche lui l’ossequiò tra i primi. Ella portava, come sempre, un abito nuovo fiammante che Lucrezia esaminava ora con la coda dell’occhio, e la principessa, Chiara, tutte le altre, giudicavano a una voce elegantissimo.

      «Manifattura di Firenze, è vero, donn’Isabella?» domandò Raimondo.

      «Si vede che vostro marito se ne intende, contessa!» rispose ella indirettamente, volgendosi a Matilde.

      Don Mariano parlava della parata della Regina, di cui quel giorno era il natalizio; Fersa del colera, della quarantena di dieci giorni decretata allora allora contro le provenienze da Malta, della fiera di Noto rimandata, del pericolo che correva un’altra volta la Sicilia; e il vocione di don Blasco rispondeva:

      «Questa è l’impresa di Crimea! Il regalo dei fratelli piemontesi, capite?»

      Il duca, quasi non comprendesse che l’allusione era diretta a lui, ripigliava il discorso della guerra interrotto a tavola, diceva che Cavour l’aveva sbagliata. La via era un’altra, raccogliersi, restarsene tranquilli, curare le piaghe del ‘48. Con lo stato indebitato fin agli occhi, come poteva pensare a fare nuovi debiti? «È un principio d’economia politica…» e qui, col tono d’autorità portato da Palermo, un discorsone che faceva inghiottire botti di veleno a don Blasco, lardellato com’era di citazioni giornalistiche e parlamentari, infettato da teorie liberalesche. Il principe, udendo Fersa esprimere ancora una grande paura del colera, scrollava il capo:

      «Se a Napoli hanno ordinato di spargerlo un’altra volta…»

      Come credeva alla iettatura, era incrollabile nell’opinione che il colera fosse un malefizio, un espediente di governo inteso a sfollare le popolazioni, a incutere un salutare timore nei superstiti. Dinanzi allo zio duca, sapendolo dell’opinione contraria, più «progressista», cioè che la peste venisse per correnti atmosferiche, taceva prudentemente; ma con Fersa si sbottonava, derideva le quarantene e tutti gli altri amminnicoli fatti per darla a bere ai gonzi.

      «Non date retta a queste malinconie!» diceva frattanto Raimondo a donn’Isabella, a fianco della quale s’era seduto. «Andrete alla serata di gala?»

      «Sì, conte; abbiamo il palco.»

      «Che rappresentano?» domandò la principessa.

      «L’Elvira di Holbein e Un’eredità in Corsica di Dumanoir. Peccato che voi non possiate sentire Domeniconi, principessa. Che artista! E che compagnia!»

      Anche don Eugenio rammaricavasi di non poter recarsi al Comunale, per far sapere che, in qualità di Gentiluomo di Camera, era stato invitato nei palchi dell’Intendente. Ma egli aveva da concludere un affare, quella sera: la vendita di certe terrecotte «importantissime», sulle quali avrebbe fatto un bel guadagno: aspettava anzi per questo il principe di Roccasciano, anche egli intenditore ed amatore di roba antica.

      «S’ha un bel dire, quindicimila uomini,» perorava il duca da canto suo. «E se la guerra dura un altro anno? Altri due, altri tre anni? Bisognerà mandar nuove truppe, far nuove spese, accrescere il deficit…»

      «A Messina aspettano l’arciduca Massimiliano.»

      «Verrà anche da noi?»

      Raimondo, a quella domanda di don Mariano, saltò su come morso da una vespa:

      «E che volete che venga a fare? Per vedere l’elefante di piazza del Duomo? Voialtri vi siete fitto in capo che questa sia una città, e non volete capire che invece è un miserabile paesuccio ignorato nel resto del mondo. Donn’Isabella, dite voi: quando mai l’avete udito nominare, fuori?…»

      «È vero, è vero!…»

      Ella agitava con moto graziosamente indolente il ventaglio di madreperla e merletti, dando ragione a Raimondo contro il paese nativo; e la contessa Matilde non sapeva perché la vista di quella donna, le sue parole, i suoi gesti, le ispirassero una secreta antipatia. Forse perché l’udiva approvare il sentimento di Raimondo che ella perdonava al marito ma biasimava negli altri? Forse perché scorgeva in tutta la persona di lei, nella ricchezza immodesta degli abiti, nell’eleganza degli atteggiamenti, qualcosa di studiato e d’infinto? Forse perché tutti gli uomini le si mettevano intorno, perché ella li guardava in un certo modo, troppo ardito, quasi provocante? O perché, una volta al suo fianco, Raimondo non si moveva più, pareva non volesse più andar fuori, non aspettar più nessuno?…

      Ingolfato nel suo tema prediletto, egli parlava adesso a vapore, enumerando tutti i vantaggi della vita nelle grandi città, interrompendosi tratto tratto per domandare a donn’Isabella: «È vero o no?» oppure: «Parlate voi che ci siete stata!…» ripigliando a descrivere la grande società, gli spettacoli sontuosi, i piaceri ricchi e signorili. E donna Isabella a chinare il capo, ad aggiungere argomenti:

      «Quando vedremo, per esempio, le corse fra noi?»

      Giusto in quel momento, don Giacinto entrò nella sala. Era così turbato in viso e si capiva così chiaramente che portava una cattiva notizia, che ognuno tacque.

      «Non sapete?»

      «Che cosa?… Parlate!…»

      «Il colera è scoppiato a Siracusa!…»

      Tutti lo circondarono:

      «Come! Chi ve l’ha detto?»

      «Mezz’ora fa, alla farmacia Dimenza… Notizia sicura, viene dall’Intendenza!… Colera di quello buono: fulminante!…»

      Subito, come se l’annunziatore lo portasse addosso, la conversazione si sciolse in mezzo ai commenti spaventati, alle esclamazioni dolenti: Raimondo accompagnò giù alla carrozza donna Isabella dandole il braccio; don Blasco vociava, in mezzo alla scala, sotto il naso del duca che andava a verificar la cosa:

      «Il regalo dei fratelli!… Ah, Radetzky, dove sei?… Ah, un altro Quarantanove!…»

      5

      Ogni altro interesse cedé come per incanto dinanzi all’universale inquietudine per la salute pubblica, giacché della notizia portata da don Giacinto, sulle prime smentita, poi confermata, non fu possibile più dubitare quando, di lì a qualche giorno, non si parlò più di casi sospetti a Siracusa, ma del divampare del morbo a Noto. Il duca, deliberato di tornarsene a Palermo prima che le cose incalzassero e la via fosse chiusa, resisté ostinatamente agli inviti del principe, il quale s’apparecchiava a partire pel Belvedere all’annunzio del primo caso in città. L’anno innanzi, come nel ‘37, gli Uzeda erano scappati alla loro villa sulle pendici della montagna, e poiché il colera non arrivava mai lassù, erano certi di liberarsene. Il principe, smessa a un tratto l’acredine, riparlava d’accordo e di unione, voleva tutti con lui al sicuro, tutti gli zii, tutti i fratelli. Quantunque non fosse tempo di trattar d’affari, nondimeno, per dimostrare al nipote d’aver preso a cuore i suoi interessi, il duca, prima di partire, riferì a Raimondo il discorso delle cambiali e lo esortò a mettersi d’accordo col fratello. Raimondo lo ascoltò distrattamente, e gli rispose quasi infastidito:

      «Va bene, va bene; poi se ne parlerà…»

      Anch’egli s’era mutato, ma al contrario di Giacomo, in peggio; era diventato nervoso, irascibile, verboso e di buon umore solo quando donna Isabella veniva al palazzo. I Fersa non sapevano

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