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rispose che gli amici lo avevano trattenuto, che non s’era accorto dell’ora tarda.

      «Del resto, qui desinate spaventevolmente presto! Nei paesi civili non si va a tavola prima dell’ave!»

      Il principe non rispose. Alzandosi da tavola mentre il fratello divorava la minestra serbata in caldo, disse al duca:

      «Zio, vuol venire un momento con me?» e lo condusse nel suo scrittoio.

      Stava di nuovo sull’intonato, come se dovesse stipulare un trattato. Chiuso a chiave l’uscio della stanza precedente, offerta una poltrona allo zio, egli stesso in piedi, cominciò:

      «Vostra Eccellenza mi scusi se la disturbo dopo tavola, ma dovendo parlare di affari importanti e non volendo portarle via il suo tempo…»

      «Ma che!…» fece il duca, interrompendo il preambolo. «Tu non mi disturbi affatto… Parla, parla pure…» e accese un sigaro.

      «Vostra Eccellenza può vedere ogni giorno,» riprese il principe, «che vita fa Raimondo, e come, invece di darmi una mano a sistemar gli affari della successione, pensi a divertirsi lasciando tutto sulle mie spalle. Parlargli d’interessi è inutile: o non mi dà retta, o non capisce… o finge di non capire.»

      Il duca approvava con un cenno del capo. Tra sé, giudicava veramente un po’ strane quelle lagnanze del nipote, che non avrebbe dovuto esser poi tanto scontento se il fratello non s’impacciava nelle quistioni dell’eredità e lo lasciava libero di fare a sua posta. E se Raimondo mostrava poca premura di partecipare agli affari, il fratello maggiore non ne aveva mostrata pochissima di renderne conto al coerede ed ai legatari? Non era forse quella la prima volta che egli teneva a qualcuno della famiglia un discorso di quel genere?

      «Ora,» continuava frattanto Giacomo, «io credo prima di tutto conveniente, nell’interesse comune, che la divisione si faccia al più presto; in secondo luogo bisogna che tutti sappiano ciò che ho saputo in questi giorni io stesso…»

      «Che cosa?»

      «Una bella cosa!» esclamò, con un sorriso amarissimo. E dopo una breve pausa, quasi a preparar l’animo dello zio alla dolorosa notizia: «L’eredità di nostra madre è piena di debiti…»

      Il duca si cavò il sigaro di bocca dallo stupore.

      «Vostra Eccellenza non crede? E chi avrebbe potuto credere una cosa simile? Dopo che abbiamo sentito tanto lodare, da tutti, il modo ammirabile tenuto dalla felice memoria nel mettere in piano la nostra casa? Invece, c’è un baratro!… Fin all’altr’ieri, non sospettavo ancora nulla. È vero che nei primi giorni dopo la disgrazia ebbi avviso di alcuni piccoli effetti sottoscritti da nostra madre, i possessori dei quali, durante la malattia, avevano pazientato oltre la scadenza; ma credevo naturalmente che fossero infime somme, di quei debitucci che tutti, in certi momenti, anche i più facoltosi, hanno bisogno di contrarre. Potevo sospettare che invece sono migliaia e migliaia d’onze, e che ogni giorno spunta un nuovo creditore, e che se continua di questo passo, il meglio dell’eredità se n’andrà in fumo?…»

      «Ma il signor Marco…»

      «Il signor Marco,» riprese il principe senza dar tempo allo zio di compiere l’obiezione, «ne sapeva meno di me ed è più sbalordito di Vostra Eccellenza. Vostra Eccellenza sa bene che carattere avesse la felice memoria, e come facesse in tutto di suo capo, e si nascondesse non solamente da coloro che dovevano essere i suoi naturali confidenti, ma da quegli stessi nei quali aveva riposto fiducia… Il signor Marco non ha notato nel suo scadenziere neppure la decima parte delle somme di cui adesso siamo debitori. Io non so che pasticci ci sieno sotto. S’immagini che esistono effetti scaduti da tre, da quattro anni, e anche da cinque!… Le confesserò che, sul principio, ho temuto d’esser vittima, come tutti gli altri, d’una truffa spaventevole, d’aver a fare con un’associazione di falsari. Ho dovuto ricredermi: le firme sono lì, autentiche. Debbo dunque supporre che il sistema di ricorrere al credito, di cui la felice memoria faceva una colpa tanto grave a nostro nonno, non le dispiacesse poi troppo… E il peggio è di non poter sapere fin dove si estende il marcio! E questa è la famosa amministrazione di cui abbiamo sentito tante lodi… Ma dice che dei morti non si deve parlare… e basta!… Ora io ho voluto informare Vostra Eccellenza, prima di tutto perché era questo il mio dovere; secondariamente perché Vostra Eccellenza ne tenga parola a Raimondo. Se questi debiti hanno da pagarsi, e purtroppo c’è poca speranza del contrario, a ciascuno bisogna imputarne la sua parte. Io vorrei anche pregare Vostra Eccellenza di avvisare gli altri, perché sappiano che i loro legati saranno anch’essi gravati in proporzione…»

      Il duca ricominciò a scrollare il capo, ma con espressione diversa. I legatari lagnavansi d’aver avuto troppo poco; adesso bisognava dir loro che avevano anche meno!

      «Perché non parli loro tu stesso?» suggerì al nipote.

      «Perché?» rispose il principe, col leggiero fastidio di chi ode rivolgersi una domanda oziosa. «E non sa Vostra Eccellenza come sono, qui in casa? Chiusi, sospettosi, diffidenti? Crede Vostra Eccellenza che io non mi sia accorto di certi maneggi, che non abbia udito certe accuse sorde sorde?… Pare che l’abbiano tutti con me, specialmente quella testa pazza di Lucrezia!… Anche oggi non ha fatto una scena?…»

      «No, no…» interruppe il duca; «al contrario, t’assicuro. Si lagnava anzi del contrario, che tu l’abbia con lei, che non le parli mai…»

      «Io? E perché dovrei averla con lei?… Non ho parlato molto in questi giorni, è vero: ma come vuole Vostra Eccellenza che avessi voglia di parlare, con queste belle notizie? Perché dovrei averla con lei, o con altri? Io ho pensato sempre ed ho detto che la cosa principale, nelle famiglie, è la pace, l’unione, l’accordo!… È colpa mia se questo non fu possibile finché visse nostra madre? Vostra Eccellenza sa come fui trattato… meglio, molto meglio non parlarne!… Adesso, quantunque io sia stato spogliato, mi hanno udito esprimere una sola lagnanza? Ho detto primo di tutti: la volontà di nostra madre sarà legge! Invece, che cosa s’è visto? Mutrie a destra e a sinistra, Raimondo che non vuole occuparsi d’affari quasi per punirmi d’avergli preso mezza eredità…»

      «No, per spassarsi…» corresse il duca.

      «Lo zio don Blasco,» proseguì il principe, quasi non udendo l’osservazione, «che ho sempre trattato con rispetto e deferenza, come tutti gli altri, istigare contro di me i legatari…»

      «Quello è un pazzo!…»

      «O gli altri, dica Vostra Eccellenza, sono forse savi? Che vogliono, che pretendono? Di che m’accusano? Perché non vengono a dire le loro ragioni? Lucrezia ha parlato oggi con Vostra Eccellenza; sentiamo: che ha detto?…»

      Quantunque deciso a non mantenere la promessa fatta qualche ora prima alla nipote, il duca, costretto dalla domanda, rispose, con un sorrisetto, per temperare quel che vi poteva essere di poco gradito nelle sue parole:

      «Tu ti lagni d’esser stato spogliato; e invece spogliati si credono essi…»

      Il principe rispose, con un sorriso più amaro del primo:

      «Proprio, eh?… E come, perché?»

      «Perché avrebbero avuto meno di quel che gli spetta… perché c’è la parte di vostro padre…»

      Giacomo s’accigliò un momento, poi proruppe, con mal contenuta violenza:

      «Allora perché accettano il testamento? Perché non chiedono i conti? Mi faranno un piacere! Mi renderanno un servizio!»

      «Tanto meglio, allora…»

      «Che cosa credono che sia l’eredità di nostra madre? Facciamo i conti, sissignore; facciamoli domani, facciamoli oggi! Anzi, perché non si rivolgono ai magistrati?…»

      «Che c’entra questo?»

      «M’intentino una lite! Facciamo ciarlare il paese, diamo questo bell’esempio d’amor fraterno! Raimondo s’unisca a loro; mi accusino di aver carpito il testamento, ah! ah! ah!… Sono capaci di pensarlo! Conosco i miei polli, non dubiti! Questo è il frutto dell’educazione impartita qui dentro, degli esempi che hanno dato, della diffidenza e del gesuitismo eretti a sistema…»

      Era

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