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di posto, e i malcontenti di tutti i colori formarono una nuova fazione, che si chiamò allora la permanente, con alla testa il conte di S. Martino. Per questa evoluzione anche il duca, naturalmente, perdette il suo grado, e da capitano che era, o si credeva di essere stato, ritornò alla Camera fantaccino.

      Inoltre i clericali puri non potevano essere più tollerati, e nelle elezioni generali del sessantasette anche Prospero, se volle essere rieletto, dovette fare parecchie concessioni al cambiato umore degli elettori. Le discussioni intorno alla libertà della Chiesa e alla liquidazione dell’asse ecclesiastico lo avevano trovato avversario, ma timido e taciturno: egli voleva salvare l’anima, e non voleva perdere il collegio; e quando si riaccesero le controversie sulla questione romana, il deputato di Borghignano non esprimeva il proprio parere altro che nel secreto dell’urna. Ma così, altalenando, finì come doveva finire, cioè coll’essere «a Dio spiacente ed a’ nemici sui»; e fu abbandonato da tutti. La sua autorità, la sua influenza furono sminuite, e non vedendosi più ascoltato non apriva più bocca se non per rispondere all’appello nominale. Egli non sapeva più che cosa fare, che cosa tentare, dove andare, a qual santo votarsi, per fare ancora un po’ di chiasso, per ritornare, in un modo o nell’altro, un uomo importante.

      Fu allora che cominciò a pensare a sua moglie. Con sua moglie vicina, egli avrebbe avuto una casa dove avrebbe dato pranzi, feste, balli, alleati efficacissimi delle mediocrità danarose. Pensò alla bellezza, all’intelligenza, alla fama intatta, alle attrattive della novità che avrebbero circondata a Firenze la duchessa d’Eleda, e sperò, col suo aiuto, di poter ancora far parlare di sè. Prospero Anatolio non poteva avere l’ambizione dell’uomo d’ingegno: era vanità, più che ambizione, la sua. Egli non aspirava ad incidere il proprio nome nelle pagine della storia, ma gongolava leggendolo stampato per le gazzette; e fra tutte, quella che leggeva sempre con maggior interesse, era la Gazzetta di Borghignano, perchè pur guardandola con aria di superiorità sprezzante, Borghignano non la perdeva mai d’occhio. Egli voleva essere un uomo grande; ma si sarebbe contentato (meno male!) che lo tenessero grande, almeno là, a Borghignano.

      Fatto il disegno, Prospero Anatolio volle metterlo subito in esecuzione, e perciò il conte Giorgio Della Valle, visitando una sera la sua buona amica, la trovò triste e preoccupata.

      – Che cosa avete, signora Maria?… avete un po’ di spleen o state poco bene?

      – No… tutt’altro. – E così dicendo, la duchessa, distratta, continuava a tagliar le pagine di un volume del Charpentier con una stecca di avorio.

      – Eppure dovete averci qualche seccatura. Lalla non è stata buona?

      – Eh! che volete, ebbe i suoi capricci con miss Dill anche stasera: ma poi si è addormentata tranquillamente.

      – E allora? – insistè il giovanotto, sicuro di non ingannarsi.

      – Allora, proprio lo volete sapere?… A voi; leggete. – E così dicendo, Maria porse una lettera a Giorgio, sulla quale brillava in tutto il suo splendore uno stemma gentilizio.

      – Prospero ha forse ragione… ma io sono così poco amante di novità!… Al pensiero di dover lasciare la mia casa, la mia quiete, le mie occupazioni, per andare a mettermi in mostra, è un pensiero che mi secca… che mi dà noia.

      Giorgio intanto leggeva la lettera a mezza voce.

      «Ma chère et ma reine,

      «Da vario tempo studio intorno a un progetto pel quale imploro la tua approvazione sovrana. Il vivere lontano dalla famiglia, esiliato dalle pareti domestiche, comincia a riuscirmi di un peso insoffribile. Sento farsi più intenso ogni giorno il desiderio delle vostre carezze, ho bisogno di distrarmi col cicaleccio della mia bambina e di rallegrare lo spirito affranto nel tuo bel volto pallido e sereno. Aggiungi a tutto questo, che io incomincio a invecchiare e, cosa peggiore, ad accorgermene. Nelle mani dei camerieri di locanda mi trovo mal servito, mal trattato, e il mio appartamento non è abbastanza comodo, quantunque sia dei migliori. Per soprappiù non istò affatto bene; e lo attribuisco alla cucina dei restaurants, alla quale non ho mai potuto abituarmi. Ho già trovato e fissato il quartiere e ho già dato tutti gli ordini opportuni.

      «Per cagione di nostra figlia e della deputazione che, pur troppo, mi tiene sempre legato alla catena, tu pure fosti costretta a condurre una vita tutt’altro che allegra. Ma adesso, essendo più libero, cercherò compensartene: qui a Firenze troverai una società omogenea, si pronostica un carnevale brillante, senza contare poi tutte le feste che si daranno più tardi, in occasione del matrimonio del principe Umberto.

      «Dimmi quanto tempo ti occorrerà per fare i preparativi della partenza, con tutto tuo agio, senza darti alcun pensiero di me, che sarò sempre il più innamorato dei mariti e il più devoto dei servitori.

      «Salutami lo zio Eriprando, ricordami a miss Dill e a Giorgio, e baciami sulle guance di Lalla.

      11 Gennaio 1868.

      «Il tuo

      «Prospero Anatolio».

      «PS. – Tutto ben calcolato, sarà a prenderti lunedì, 20 gennaio, e ripartiremo il 25. Il cuoco potrebbe venire a Firenze col cocchiere il 18. Intanto Giuseppe e Pietro, che restano a Borghignano, avranno cura dei cavalli, e l’uno o l’altro farà anche la cucina. Regolati per tutte le disposizioni occorrenti. Sans adieu».

      A questo punto Giorgio, restituita la lettera, si mise a ridere tutto allegro.

      – Come! Ridete? – disse Maria, mortificata.

      – Perdonatemi, duchessa; ma se sapeste che buona notizia ho ricevuto da questa lettera!

      – Voi?

      – Sì, io. Aspettate, e poi mi direte se non ho ragione di essere contento. – Così dicendo, Giorgio, tolta una lettera dal suo portafoglio, cominciò a leggere di nuovo e ad alta voce:

      «Carissimo nipote,

      «Parto fra otto giorni e vado a Parigi. Devo conferire con Nigra per incarico avuto dal nostro Governo, e poi ripartire per il Belgio e la Prussia.

      «Resterò assente un mese o forse due.

      «Mia moglie è sempre indisposta, non posso adunque prenderla meco e non vorrei lasciarla qui affatto sola.

      Tu sei il mio unico parente, non hai nulla da fare (per la repubblica c’è tempo) e, aspettandola, potresti lasciare il fascio, le loggie e i fremiti di Borghignano, per adempiere ai tuoi doveri di nipote.

      «La zia ha i capelli misto-marengo, non temo perciò le tue seduzioni; è irlandese, e l’influenza delle tue idee progressiste potrà anzi farle del bene.

      «A proposito della repubblica: il presidente lo prendete bell’e fatto, o lo ordinate apposta? In ogni modo non dimenticarti di raccomandargli la mia testa: potrà sempre riconoscerla dalla coda.

      «Attendo una risposta a volta di corriere.

      «Fa quello che vuoi. Ti lascio libero della tua volontà: ma, se rifiuti, bada che ti diseredo.

      «Ascolta dunque le mie preghiere, unitamente a quelle dei tuoi creditori, e prendi subito il diretto per Firenze. Tua zia ti prepara una benedizione del Santo Padre.

      «Ti stringo la sinistra e mi dichiaro colla destra

      «L’affezionato zio

      «Pier Luigi da Castiglione».

      – Ma dunque? Voi pure venite a Firenze? – esclamò Maria; e ne’ suoi grandi occhi, invece delle lacrime, brillava adesso la gioia.

      – Certamente!… Volete che mi lasci diseredare? Ho già risolto e parto fra otto giorni.

      – Oh bravo!… Nel caso contrario, sapete, mi sarei unita io pure a vostro zio…

      – E ai miei creditori.

      Maria rise del motto, e fra le due buone creature cominciò quella corrente di allegro umore, schietto e sereno, che di tanto in tanto fa così bene all’anima e alla salute. Giorgio mise in canzonatura Prospero Anatolio, il quale sottoponeva il suo progetto alla volontà sovrana della consorte e finiva poi col fissare la giornata e l’ora della partenza. E Maria rispose citando il conte

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