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rispose appena con un’alzata di spalle.

      – Non mi riconosci più? – le domandò Giorgio un po’ seccato.

      – Lalla, su via, obbedisci! – replicò Maria vivamente. Lalla abbassò la testina un’altra volta, allungò il musino, ma non si mosse.

      – Quando vi dovete mostrare così ineducata – esclamò Maria in collera più di quanto avrebbe voluto esserlo – ritornate subito subito da miss Dill. – Lalla corrugò le ciglia con un atto comicamente feroce, e opponendosi con mal garbo a Giorgio, che voleva trattenerla, corse via dal salotto.

      – Perchè tormentarla, povera piccina? – disse il Vharè alla duchessa.

      – Piccina, non è poi tanto piccina. Va per gli otto anni, presto.

      Il marchese sorrise… il perfido marchese che avea lasciate forti impressioni nel cervellino di Lalla.

      In una delle sue gite a Santo Fiore, Prospero Anatolio aveva parlato lungamente colla duchessa, a proposito del Vharè. Lalla che da un’ora era occupata nel ritagliare le belle signore del figurino, era là interamente dimenticata dal babbo e dalla mamma, nascosta dietro a un tavolino coperto di fiori e di libri ammonticchiati, e, a poco a poco, la sua attenzione si sviò dalle belle signore e fu invece tutta assorta nei discorsi del duca Prospero Anatolio, dopo aver parlato dei debiti del marchese, raccontava le sue avventure amorose, e tra le altre, il tentato suicidio di un’attrice celebre, la Mirette Croix, gelosa della baronessa Poloniski, sua rivale fortunata.

      Il racconto piacque tanto alla piccina, che essa da quel giorno scelse il marchese di Vharè per suo sposo, e fu il principe Incantevole di tutti i suoi castelli fabbricati in aria. Però, quando egli era in villa dalla duchessa, e passeggiava in giardino, Lalla prima lo spiava nascosta: poi, tutto ad un tratto, gli appariva dinanzi rossa e balbettante. Quel giorno, durante il pranzo, se Maria e Giorgio le avessero badato, avrebbero veduto il suo visino pallido, cogli occhi grandi, fissi, incantati nel bel parlatore. Ma invece quel giorno Maria avea ben altro nel cuore, e Giorgio era troppo irritato per poter badare a simili bambinate.

      Giorgio non poteva lagnarsi di nulla: ma ciò non impediva ch’egli fosse malcontento di tutto, e che si trovasse a disagio. Accolto con festa, capiva tuttavia di essere diventato straniero in quella famiglia, e quando egli disse di voler partire la mattina dopo, non fu adoperata alcuna insistenza per trattenerlo di più. Anche l’intimità che vedeva concedere ad un uomo per lui disprezzabile, senza reputazione e senza carattere, com’era il marchese di Vharè, lo irritava, mentre cominciava a essere infastidito dalle durezze e dalle impertinenze di Lalla, che non gli avea perdonato d’esser egli la cagione, sebbene involontaria, del castigo ricevuto.

      Dopo il pranzo, la serata fu tutta a beneficio del Vharè, che sorretto da un eccellente Bordeaux-Lafitte era riuscito a dimenticare le prossime scadenze e a fare dello spirito: mentre Giorgio annoiato, arrabbiato, aveva perdute tutte le buone intenzioni di spiegarsi con Maria e di riprendere l’intimità di una volta, così che quando, partito il marchese, egli si trovò solo colla duchessa, non iscambiò con lei altro che i soliti complimenti.

      – Dunque volete proprio partire domattina?

      – Sì, signora duchessa, col treno delle otto.

      – Col treno delle otto? Così presto? Non potreste aspettare dopo colazione?

      – Ne sono spiacentissimo… è assolutamente impossibile!

      Di faccia all’impossibilità non si fecero altri tentativi, e Maria salutò la sera stessa il suo ospite.

      – Per Dio, ho fatta una bella gita quest’oggi! – esclamò Giorgio, dando libero sfogo al dispetto, per tanto tempo trattenuto, dopo di essersi rinchiuso, solo, nella sua camera. – Metteva proprio il conto che sacrificassi una giornata di Venezia, per ottenere di questi bei risultati – e, così dicendo, buttò lontano una scarpa che si era levata. – Mah! Le donne?… chi capisce le donne, è bravo davvero! E Lalla?… com’è viziata quella sciocchina! – A questo punto la seconda scarpa raggiunse la prima. – Infine, se Prospero non ha ragione, non ha neanche torto; Maria è senza cuore. In tutto il giorno trattò me, che conosce da vent’anni, come fossi il primo venuto; mentre era tutta smorfie e garbatezze per quel barattiere, per quel marchese da burla, impertinente e sfacciato… Sacripante! ho rotto l’orologio! – Giorgio, dopo essersi spogliato dell’abito, s’era messo a caricare il suo remontoir; ma, accompagnando ogni giro con un movimento nervoso delle dita, terminò a questo punto d’ira crescente, col rompere la molla.

      – Sapristi!… Prima che capiti un’altra volta a Santo Fiore, deve passare molto tempo! – borbottò, – No, no, lascio libero il campo al bel marchese!… Ma… ora che ci penso, non ci sarebbe pericolo ch’egli fosse più innanzi con la duchessa di quanto si crederebbe?… L’occasione fa l’uomo ladro; la solitudine, la donna facile!… Che! che! nemmen per idea!.. Maria non è altro che un pezzo di ghiaccio! – e così concludendo, il giovinotto, ormai svestito, si cacciò in letto, spense il lume, e ben presto si addormentò.

      In tutta quella notte chi, passando dal Palazzo dei Santo Fiore, avesse alzato un po’ il capo, avrebbe veduto una finestra illuminata. Come mai? Non c’erano nè poeti nè ammalati là dentro, e faceva un tempo così tranquillo, con una brezzolina fresca d’ottobre, da conciliare il sonno anche alle stelle del firmamento.

      Chi vegliava, dunque, in quella stanza, e perchè vegliava?…

      Quella era la cameretta di Maria… Povera Maria!

      La mattina dopo, prima delle otto, il conte Della Valle era già sceso nel cortile del palazzo e, pronto per partire, accendendo il sigaro dinanzi alla carrozza che doveva condurlo alla stazione:

      – La signora duchessa dorme ancora, certamente? – domandò al servitore che gli teneva aperto lo sportello.

      – No, signor conte. La signora duchessa è uscita a cavallo.

      – Sola? – domandò meravigliato.

      – Sola, con Lorenzo.

      – Esce di frequente la mattina?

      – Quasi sempre, ma molto più tardi.

      – Uhm!… poteva almeno fermarsi per salutarmi, – pensò Giorgio tra sè; e montò in carrozza, accomiatandosi più annoiato che dolente da Santo Fiore.

      Appena chiuso nel suo coupé, dove per fortuna si trovò solo, accese una spagnoletta, e, quando il convoglio partì, abbassò i cristalli, aspirò con voluttà l’aria fresca balsamica del mattino, ammirando le praterie verdissime, che passando dinanzi ai suoi occhi parevano descrivere dei semicerchi.

      – Oh, bella! guarda la duchessa! – esclamò a un tratto levandosi e sventolando il fazzoletto fuori dal carrozzone.

      – To’, to’, to’, il Vharè è con lei?… solo?… A quest’ora? ma dove diamine hanno lasciato Lorenzo? – e il giovane rimase meravigliato di quell’incidente persuadendosi a dispetto del suo ottimismo che l’intimità di Maria col marchese era, per lo meno, eccessiva.

      Infatti, sopra un poggio, dietro un filare di platani. Maria e il Vharè, a cavallo, aspettavano il paesaggio del treno. Pareva che là a cavallo tutti e due, tutti e due soli, in quell’ora mattutina si fossero dati una posta; ma invece il loro incontro non era che l’opera innocente del caso.

      Quel poggio che si chiamava appunto il Poggio dei platani, era adiacente ad una delle fattorie del marchese, dove questi si era recato assai di buon’ora con due periti per fare una stima.

      – Ohè! la corsa! – esclamò un di loro, quando udì il rumore sordo, monotono che la precede.

      – Sicuro; è l’omnibus di Venezia. – Così dicendo il Vharè puntò lo sguardo per vederlo passare; ma vide invece Maria, che a briglia sciolta saliva l’erta e penetrava, nascondendosi al di là del Poggio dei platani.

      – La duchessa? Aspettate un momento, vado e torno, – e l’incorreggibile vagheggino, ch’era pure a cavallo, in due galoppate l’aveva raggiunta.

      Maria non avrebbe potuto lasciar partire

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